sexta-feira, 31 de dezembro de 2010

Il padre tra Ettore e Achille

Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la
Famiglia
XXIX Convegno nazionale AIMMF
“Di padre in figlio. La paternità tra regole e affetti”.
Luigi Zoja
Il padre tra Ettore e Achille

L'invenzione del padre
Al contrario di quanto affermano i luoghi comuni, allo stato animale il maschiopadre non è necessariamente il genitore che in seguito ignora i suoi piccoli. Nella maggior parte delle specie di uccelli, ad esempio, la cura della prole è garantita equamente dal padre e dalla madre. Tuttavia, negli animali superiori il padre si limita quasi esclusivamente alla fecondazione. Gli etologi e gli antropologi arrivano alla stessa conclusione, secondo la quale la funzione umana del padre – che s’incarica di organizzare la famiglia e veglia sulle sue esigenze vitali – è un’invenzione della civiltà. In altri termini: l’invenzione del padre corrisponde all’invenzione della famiglia e quindi a una prima tappa della civiltà.
In questa ottica, forse, il padre è all’origine di tutto. Non per caso quindi si situa, almeno in Occidente, all’origine e al centro della grande metafora monoteista. Forse la società è esistita prima del padre, ma la famiglia no. Forse la preistoria è esistita- prima del padre, ma la storia della civiltà no. Passando dalla femmina fecondata alla madre si registra un progresso iscritto nella continuità, mentre passando dal maschio fecondatore al padre siamo di fronte a una rivoluzione. Come la civiltà, pure in grado di compiere passi da gigante, la costruzione della funzione paterna (mai trasformata in istinto, sempre obbligata a radicarsi a fatica in
ogni nuova generazione) non si libera dei suoi piedi d’argilla nel corso dei secoli. Un’invenzione così potente deve basarsi, o addirittura derivare da una psicologia onnipotente. Deve quindi negare di essere artificiale e quasi arbitraria, nonostante lo sia. Si sente anche in dovere di negare che è una variante precaria, poiché recente, della storia dell’umanità.
Le testimonianze delle epoche più diverse dimostrano che dobbiamo considerare la paternità in modo assai diverso dalla maternità. Lo diceva molto chiaramente già Margaret Mead. Gli uomini devono imparare a desiderare di provvedere ad altri: ma questo comportamento, essendo acquisito, non ha basi solide e può sparire facilmente, se le condizioni sociali non continuano a insegnarlo. Si potrebbe invece dire il contrario delle donne: esse sono madri a meno che non si insegni loro a negare l’istinto materno. Bisogna che la società alteri il concetto che hanno di se stesse, falsifichi i loro istinti, commetta una serie di colpe nell’educarle, prima che esse
arrivino a non desiderare di provvedere, almeno per qualche anno, al bambino che hanno già nutrito nove mesi nel sicuro rifugio del loro corpo.
L’invenzione del padre, in questo senso, non ha semplicemente a che fare con uno sforzo eroico, ma con il mito di Sisifo. È facile proporre una verifica indiretta di questo problema. Se l’elemento decisivo dello sviluppo della civiltà risiede nella forza del ruolo paterno, le società e i gruppi più forti avranno un padre forte, e viceversa. La società americana è un buon
esempio: da un lato la vocazione nettamente patriarcale dei puritani e degli ebrei è stata seguita dal loro successo sociale, dall’altro, invece, si è assistito alla marginalizzazione del sottoproletariato afroamericano costituito da famiglie dirette nella maggior parte dei casi da una madre o da una nonna. Come afferma Margaret Mead, con lo schiavismo il padre è caduto nell’oblio, perché i suoi diritti non erano più riconosciuti e i suoi doveri non erano più insegnati, mentre l’istituzione materna restava intatta: la madre non poteva essere separata dal figlio al momento della vendita, al contrario del padre. La spina dorsale della famiglia nera era così spezzata e lo sarebbe rimasta per secoli.
Il rapporto fra il mito e la realtà ci porta a interrogare un falso mito, particolarmente diffuso nella cultura dell’effimero, secondo il quale la decadenza del padre in Occidente sarebbe un fenomeno recente, essenzialmente del ventesimo secolo. Il crollo dell’istituzione paterna si è manifestato nel corso delle ultime generazioni: questa epoca è stata segnata dalle guerre mondiali e dalla disillusione provocata dai “padri terribili”. Per quanto riguarda la famiglia, si è assistito a un aumento esponenziale del numero dei divorzi che, quasi sempre, allontanano il figlio dal padre, perché il bambino è affidato alla madre. In Germania e in Italia (in cui non si erano cicatrizzate le ferite di questi “padri terribili”, di questi padri decaduti perché avevano combattuto dalla parte del male) dei figli-fratelli rivoluzionari hanno cercato di imporsi ai padri con la violenza. La generazione del Sessantotto, quindi, sfocia in
una cultura dei figli che sparano sui padri.
Nel suo saggio del 1996, La società degli eterni adolescenti, Robert Bly, analizzando la Rivoluzione Cinese, parla di una società orizzontale dei figli che si è affermata con forza nel corso degli ultimi cinquant’anni. In molte rivoluzioni, una visione orizzontale, iperdemocratica (Pol Pot si faceva chiamare «primo fratello»), concorrenziale e priva di ogni forma di elevazione, prende il posto di una visione verticale, che si dirige verso il profondo ed è cosciente della genealogia.
Ma bisogna precisare una sfumatura. Sul piano storico e sociologico della famiglia, il padre, nella sua funzione, si rafforza fino all’inizio del xx secolo. Invece, sul piano delle grandi immagini collettive (come quella degli assi dello sguardo utilizzata da Robert Bly) la visione verticale era già stata sostituita dalla visione orizzontale al momento della Rivoluzione Francese. Allo stesso modo, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento ribaltava gli sguardi: prima quello del Padre sui figli, poi quello che il Figlio rivolge al Padre o ai suoi fratelli. In questa ottica, gli ultimi venti secoli rappresentano un allontanamento unico, solenne e lento, del padre che non è più il centro dello sguardo.
Spesso le ricostruzioni del ruolo del padre assomigliano a racconti dall’apparenza storica che rimettono in causa tutto il nostro sistema di valori, ma il loro contenuto risulta metafisico. Si arriva non solo a pensare che Dio rappresenta il padre, ma anche che il padre, come diceva Freud, rappresenta Dio e, al tempo stesso, una tesi metafisica. Parlare del padre non può essere ricondotto a semplici discorsi sociologici sulla famiglia.
Con i suoi falsi miti l’ideologia contamina i discorsi. Per interrogare il padre, quindi, bisogna riprendere delle immagini mitiche vere, semplici, che ne descrivono gli attributi: la forza e la debolezza.

Padri e mito
Non c’è un’immagine assoluta del padre, ma alcune risultano più profonde di altre.
Per identificarle dobbiamo risalire alle fonti del problema. Le lingue moderne utilizzano ancora, per indicare la terra d’origine, il termine “patria”, che in greco significa “terra dei padri”. Ritorniamo quindi alla civiltà greca e all’opera di Omero. Essa non è solo il primo libro dell’Occidente, ma anche la bibbia del suo patriarcato. Al contrario di tutte, o quasi, le letterature che siamo abituati a definire eroiche, i poemi omerici presentano e descrivono in maniera abbastanza precisa il ruolo del padre: quello di Ulisse con Telemaco e quello di Ettore con Astianatte,rispettivamente nell’Odissea e nell’Iliade. La descrizione di Ettore è semplice ma completa, la più poetica a parere della critica, al punto di arrivare a immaginare che
fosse quella preferita da Omero. Omero si esprime in terza persona e descrive il rapporto del figlio con il padre. Il rapporto di Ettore con il figlio non deriva da qualcosa di preesistente. Il piccolo Astianatte se ne sta tranquillo nelle braccia della nutrice e in quelle della madre, ma quando il padre desidera prenderlo in braccio, spaventato si tira indietro. A differenza
del contatto con la madre, il contatto con il padre non è un fatto originario: questo
incontro non è naturale, gli strati della civiltà si frappongono. Omero non ne parla esplicitamente in questi termini, ma utilizza delle immagini significative per la sua epoca e, anche per noi, molto più convincenti di qualsiasi concetto moderno. Agli occhi del bambino l’uomo assomiglia a una terribile divinità minacciosa, tutta coperta di bronzo e provvista di un elmo ornato da una criniera di cavallo fluttuante. I genitori capiscono che è stata questa immagine a spaventare il piccolo Astianatte e sorridono. Allora Ettore si toglie l’elmo e il bambino si lascia baciare e prendere in braccio. Ettore lo solleva e pronuncia un arcaico Pater noster, in cui chiede a Zeus (padre suo) che questo figlio un giorno sia considerato molto più
forte di lui, il padre. Siamo lontani da certe interpretazioni moderne, in particolare da
quella che pretende di ispirarsi al mito greco privilegiando il mito di Edipo, secondo
la quale il rapporto padre-figlio si fonderebbe sulla competizione e sull’invidia!
Questo gesto verticale, accompagnato da uno sguardo verticale, resterà per sempre il gesto del padre. Esprimerà lo sforzo che questi compie per appartenere a un albero genealogico e assicurare la continuità di un dio-padre nei cieli. È lo sforzo di elevare il figlio al di sopra di sé, la civiltà al di sopra della natura. Di passare dal maschio al padre, dall’erezione all’elevazione.
La forza del gesto resterà intatta nel passaggio dalla Grecia a Roma e segnerà tutta l’antichità classica, epoca in cui il padre conoscerà la sua espressione più elevata. Come vuole la tradizione, quando fugge da Troia in fiamme Enea porta la discendenza dei Troiani in Italia. Ce lo immaginiamo impegnato a traslocare il mondo simbolico di Omero, che trasmetterà a Virgilio, il poeta ufficiale di Roma. Anche l’immagine di Enea in fuga è significativa e verticale: porta il padre Anchise sulle spalle, sopra di sé, e tiene per mano, al di sotto di sé, il figlio Ascanio. È la rappresentazione di un albero genealogico in cammino verso il progetto paterno. Le braccia dell’eroe fondatore – la destra che conduce Ascanio, la sinistra che sorregge Anchise sulle spalle – hanno avuto, per la Roma antica, il valore ideale che le braccia aperte del Cristo hanno ancora per i cristiani. È stato uno dei temi dell’antichità più rappresentati nelle statue, nei dipinti, nei mosaici e nelle monete risalenti al v secolo a.C., quando Roma era stata da poco fondata e mezzo millennio la separava da Virgilio. Augusto, che ha ispirato l’Eneide e il trionfo del patriarcato romano, ha imposto che venisse eretta al centro del Foro una statua di Enea in fuga con il padre e il figlio.
Ma perché, alla sua apoteosi, l’eroe fondatore è rappresentato mentre fugge? La risposta è chiara se ci si riferisce non alla burocrazia della storia, ma ai simboli profondi ai quali Virgilio e Augusto erano sensibili. Il combattimento decisivo che si svolge a Troia devastata dalle fiamme, non è una battaglia occasionale e di breve durata, che oppone i Troiani ai Greci. Si tratta invece dell’opposizione strutturale, millenaria, e ancora inoperante, fra il maschio mescolato a un’orda e l’individuo-maschio responsabile, quello che la società romana voleva incarnare nei padri. Nel II libro dell’Eneide, Enea è costantemente in preda all’esitazione fra l’istinto del combattente e il ragionamento che gli permetterà di salvare i suoi. Oscilla fra il desiderio impulsivo del giovane uomo e il progetto del padre. Il vero percorso compiuto da Enea non si riassume nel viaggio fra Troia e la fondazione di Roma. Enea prende per sempre le distanze dalle fiamme che distruggono Troia e dagli impulsi ardenti dei giovani maschi, per sottoscrivere degli impegni irreversibili e non effimeri, come impone la genealogia. Nella sua fuga, Enea esprimeva la sua generosità verso il padre e in quanto padre dimostrava la stessa coerenza che lo aveva animato quando la esprimeva riguardo al padre Giove. Il gesto di Ettore figura, e non a caso, in una delle principali istituzioni del diritto romano. A Roma, essere padre era un fatto ben definito sul piano sociale e giuridico. La paternità non dipende dalla biologia, ma da un atto formale. Non si riassume nell’aver concepito un figlio con una donna, ma risiede nella dimostrazione che si desidera dare di voler essere padre. Il padre solleva il figlio in pubblico e indica in questo modo che diventa responsabile di lui. Così definita, la semplice paternità fisica non conta: a Roma, ogni paternità “vera” è un’adozione. Questa paternità che passa attraverso l’elevazione del figlio alimenta l’“archetipo” che ci interessa. La sua importanza va ben oltre l’aspetto giuridico e ben oltre i tempi antichi. È sovratemporale e sovraistituzionale: l’elevazione accompagna l’asse verticale che è partito da Ettore e che oggi è interrogato da Bly. All’origine, come afferma il legislatore romano, si ritrova ciò che, secondo la nostra ricostruzione, ha segnato l’inizio della paternità: l’intenzione maschile non si riassume nella semplice concezione di un figlio, ma corrisponde all’instaurazione di un legame stabile con quest’ultimo. Una tale constatazione non riguarda solo il diritto romano della famiglia. Non si tratta di una regola astratta e arbitraria; si assiste al contrario alla
riproduzione della genesi preistorica della famiglia. La potenza di questa legge non deriva dalla forza politica e militare di Roma, ma dalla capacità di riproduzione delle antichissime necessità che hanno assicurato il passaggio dalla vita animale alla famiglia monogamica.
Per Catullo, il padre era il paradigma totale, anche per quanto riguarda l’amore. Per esprimere l’intensità della sua passione alla sua amata, le dice di averla amata «non come il volgo l'amante, / ma come il padre ama i suoi figli» (LXXII). Questo amore paterno, comunque, è sempre la conseguenza di una libera scelta. La condizione del padre – Ritorniamo all’immagine iniziale di Ettore che ama e solleva il figlio, ma che lo spaventa con le armi. Interroghiamo il significato simbolico del rapporto padre-figlio attraverso il diaframma duro e freddo
dell’armatura.
Abbiamo affermato che, per la civiltà, il padre è un colosso dai piedi d’argilla, che
la sua istituzione, in origine onnipotente, in realtà è fragile, perché, a differenza della
madre, deve costantemente essere ricostruito, una generazione dopo l’altra. Ogni istituzione veramente nuova, ogni costruzione culturale rivoluzionaria e nata da poco, ha bisogno di onnipotenza e di rigidità, di fanatismo e di aggressività. Per compensare e negare, ai propri occhi, la precarietà, ricorre alle armi, all’eliminazione dell’avversario e del dubbio. Non si tratta di stabilire un confronto fra l’uomo-padre e la donna-madre; la posta in gioco consiste nell’istituzione culturale del padre, che, come sappiamo, ha bisogno di un’armatura per sopravvivere.
Per questo gli uomini – i padri, non i maschi – hanno inventato le leggi, lo stato e le armature. Queste non si iscrivono nello sviluppo culturale del pene, ma in quello delle difese legate all’angoscia della non esistenza (non dimentichiamo che allo stato animale l’aggressività non è necessariamente propria dei maschi: nei leoni, ad esempio, compete alla femmina uccidere). L’aggressività del padre-uomo non è una condizione naturale. Al contrario, esprime il terrore di ritornarvi. Se in una società la madre perde l’autorità, continua a essere madre. Ma per il padre, è il crollo del significato della sua esistenza.
Per riassumere il mio discorso, affermerò che ciò che differenzia i padri dalle madri, in ogni società e attraverso l’autoritarismo e l’aggressività dei primi, non è la conseguenza di un istinto o di una pulsione combattiva originaria, ma di un ruolo acquisito e della tipica condizione ansiogena che essi si sono dati al centro della civiltà. Come l’elmo di Ettore, questa condizione spesso spaventa inutilmente i figli.
L’elmo di Ettore è fonte di molti altri insegnamenti: ci ricorda che un padre potrebbe capire il terrore che la sua armatura rutilante ispira al figlio, e che potrebbe allora sorridere, deporre la corazza e baciare il figlio come farebbe la madre. Tuttavia la saggezza di Omero va molto al di là. Essa fornisce un’immagine all’alternativa tragica che la storia, immersa in un fiume di sangue, sembra averci voluto lasciare in eredità. In realtà, Ettore è l’unico eroe completo di Omero che sia in grado di esemplificare una sensibilità femminile. L’uccisione di Ettore, che soccombe ad Achille, rappresenta l’apogeo dell’Iliade e rivela i modelli mitici sui quali si basava la società i cui racconti, stratificandosi nel corso dei secoli, formano l’epopea omerica.
Achille infatti è l’antitesi di Ettore. Anche Achille è padre, ma ignoriamo tutto del suo rapporto con il figlio, di cui sappiamo che è un guerriero-uccisore, come lui. Se Ettore è il tronco su cui si basa la famiglia, Achille è la scure che l’abbatte: Andromaca lo ricorda come colui che ha sterminato i suoi, suo padre e i suoi sette fratelli. Se Ettore è la voce che cerca di fermare la distruzione sottoponendo la guerra a regole cavalleresche, Achille è il ruggito che riporta la battaglia in piena giungla.
Alla fine del duello con l’eroe troiano, rifiuta quelle regole, non vuole nessun codice,
e inoltre invoca il sangue che, secondo noi, abbevera le belve: «non esistono patti affidabili fra i leoni e gli uomini, / né possono lupi ed agnelli avere cuore concorde»(XXII, 262s).
Noi pensiamo che, con un’intuizione decisamente profetica, il racconto di Omero abbia scelto, fra i due modelli mitici paterni di cui disponeva, quello che doveva affermarsi. Pensiamo che abbia rinunciato al più completo, quello di Ettore, per favorire quello di Achille, ossia il più debole sul piano familiare ma il più forte a livello pubblico, politico e militare. In questo modo, ci sembra che abbia preannunciato la lenta crescita in potenza, nel corso dei secoli, della sua forza istituzionale, a cui non corrispondeva la stessa differenziazione a livello dei
sentimenti individuali. Si è così arrivati alla degradazione di questi ultimi tempi: alla testa dei grandi stati le grandi metafore paterne hanno rivaleggiato in tirannia e in furto, accelerando quindi il declino della famiglia patriarcale. Si è finito con l’instaurarsi di una pressione di forze pubbliche e private che s’impegnano a gettare il discredito sul padre a tutti i livelli, sociale, familiare e intrapsichico. Prima di rassegnarci, possiamo comunque chiederci se è inevitabile che in tutte le epoche Ettore sia schiacciato da Achille.
Bibliografia:
Luigi Zoja
Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre.

retirado do site da Associazione Italiana dei Magistrati Per i Minorenni e Per La Famiglia

Um comentário:

fénix renascida disse...

Não é fácil seguir o texto, estando ele em italiano.

Mas o assunto, evidentemente, interessa-me.

Feliz Ano 2011:)

Visitem o meu blog EM DEFESA DO SUPERIOR INTERESSE DOS NOSSOS FILHOS em http://srevoredo.blogspot.com

Bjs:)