Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la
Famiglia
XXIX Convegno nazionale AIMMF
“Di padre in figlio. La paternità tra regole e affetti”.
Luigi Zoja
Il padre tra Ettore e Achille
L'invenzione del padre
Al contrario di quanto affermano i luoghi comuni, allo stato animale il maschiopadre non è necessariamente il genitore che in seguito ignora i suoi piccoli. Nella maggior parte delle specie di uccelli, ad esempio, la cura della prole è garantita equamente dal padre e dalla madre. Tuttavia, negli animali superiori il padre si limita quasi esclusivamente alla fecondazione. Gli etologi e gli antropologi arrivano alla stessa conclusione, secondo la quale la funzione umana del padre – che s’incarica di organizzare la famiglia e veglia sulle sue esigenze vitali – è un’invenzione della civiltà. In altri termini: l’invenzione del padre corrisponde all’invenzione della famiglia e quindi a una prima tappa della civiltà.
In questa ottica, forse, il padre è all’origine di tutto. Non per caso quindi si situa, almeno in Occidente, all’origine e al centro della grande metafora monoteista. Forse la società è esistita prima del padre, ma la famiglia no. Forse la preistoria è esistita- prima del padre, ma la storia della civiltà no. Passando dalla femmina fecondata alla madre si registra un progresso iscritto nella continuità, mentre passando dal maschio fecondatore al padre siamo di fronte a una rivoluzione. Come la civiltà, pure in grado di compiere passi da gigante, la costruzione della funzione paterna (mai trasformata in istinto, sempre obbligata a radicarsi a fatica in
ogni nuova generazione) non si libera dei suoi piedi d’argilla nel corso dei secoli. Un’invenzione così potente deve basarsi, o addirittura derivare da una psicologia onnipotente. Deve quindi negare di essere artificiale e quasi arbitraria, nonostante lo sia. Si sente anche in dovere di negare che è una variante precaria, poiché recente, della storia dell’umanità.
Le testimonianze delle epoche più diverse dimostrano che dobbiamo considerare la paternità in modo assai diverso dalla maternità. Lo diceva molto chiaramente già Margaret Mead. Gli uomini devono imparare a desiderare di provvedere ad altri: ma questo comportamento, essendo acquisito, non ha basi solide e può sparire facilmente, se le condizioni sociali non continuano a insegnarlo. Si potrebbe invece dire il contrario delle donne: esse sono madri a meno che non si insegni loro a negare l’istinto materno. Bisogna che la società alteri il concetto che hanno di se stesse, falsifichi i loro istinti, commetta una serie di colpe nell’educarle, prima che esse
arrivino a non desiderare di provvedere, almeno per qualche anno, al bambino che hanno già nutrito nove mesi nel sicuro rifugio del loro corpo.
L’invenzione del padre, in questo senso, non ha semplicemente a che fare con uno sforzo eroico, ma con il mito di Sisifo. È facile proporre una verifica indiretta di questo problema. Se l’elemento decisivo dello sviluppo della civiltà risiede nella forza del ruolo paterno, le società e i gruppi più forti avranno un padre forte, e viceversa. La società americana è un buon
esempio: da un lato la vocazione nettamente patriarcale dei puritani e degli ebrei è stata seguita dal loro successo sociale, dall’altro, invece, si è assistito alla marginalizzazione del sottoproletariato afroamericano costituito da famiglie dirette nella maggior parte dei casi da una madre o da una nonna. Come afferma Margaret Mead, con lo schiavismo il padre è caduto nell’oblio, perché i suoi diritti non erano più riconosciuti e i suoi doveri non erano più insegnati, mentre l’istituzione materna restava intatta: la madre non poteva essere separata dal figlio al momento della vendita, al contrario del padre. La spina dorsale della famiglia nera era così spezzata e lo sarebbe rimasta per secoli.
Il rapporto fra il mito e la realtà ci porta a interrogare un falso mito, particolarmente diffuso nella cultura dell’effimero, secondo il quale la decadenza del padre in Occidente sarebbe un fenomeno recente, essenzialmente del ventesimo secolo. Il crollo dell’istituzione paterna si è manifestato nel corso delle ultime generazioni: questa epoca è stata segnata dalle guerre mondiali e dalla disillusione provocata dai “padri terribili”. Per quanto riguarda la famiglia, si è assistito a un aumento esponenziale del numero dei divorzi che, quasi sempre, allontanano il figlio dal padre, perché il bambino è affidato alla madre. In Germania e in Italia (in cui non si erano cicatrizzate le ferite di questi “padri terribili”, di questi padri decaduti perché avevano combattuto dalla parte del male) dei figli-fratelli rivoluzionari hanno cercato di imporsi ai padri con la violenza. La generazione del Sessantotto, quindi, sfocia in
una cultura dei figli che sparano sui padri.
Nel suo saggio del 1996, La società degli eterni adolescenti, Robert Bly, analizzando la Rivoluzione Cinese, parla di una società orizzontale dei figli che si è affermata con forza nel corso degli ultimi cinquant’anni. In molte rivoluzioni, una visione orizzontale, iperdemocratica (Pol Pot si faceva chiamare «primo fratello»), concorrenziale e priva di ogni forma di elevazione, prende il posto di una visione verticale, che si dirige verso il profondo ed è cosciente della genealogia.
Ma bisogna precisare una sfumatura. Sul piano storico e sociologico della famiglia, il padre, nella sua funzione, si rafforza fino all’inizio del xx secolo. Invece, sul piano delle grandi immagini collettive (come quella degli assi dello sguardo utilizzata da Robert Bly) la visione verticale era già stata sostituita dalla visione orizzontale al momento della Rivoluzione Francese. Allo stesso modo, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento ribaltava gli sguardi: prima quello del Padre sui figli, poi quello che il Figlio rivolge al Padre o ai suoi fratelli. In questa ottica, gli ultimi venti secoli rappresentano un allontanamento unico, solenne e lento, del padre che non è più il centro dello sguardo.
Spesso le ricostruzioni del ruolo del padre assomigliano a racconti dall’apparenza storica che rimettono in causa tutto il nostro sistema di valori, ma il loro contenuto risulta metafisico. Si arriva non solo a pensare che Dio rappresenta il padre, ma anche che il padre, come diceva Freud, rappresenta Dio e, al tempo stesso, una tesi metafisica. Parlare del padre non può essere ricondotto a semplici discorsi sociologici sulla famiglia.
Con i suoi falsi miti l’ideologia contamina i discorsi. Per interrogare il padre, quindi, bisogna riprendere delle immagini mitiche vere, semplici, che ne descrivono gli attributi: la forza e la debolezza.
Padri e mito
Non c’è un’immagine assoluta del padre, ma alcune risultano più profonde di altre.
Per identificarle dobbiamo risalire alle fonti del problema. Le lingue moderne utilizzano ancora, per indicare la terra d’origine, il termine “patria”, che in greco significa “terra dei padri”. Ritorniamo quindi alla civiltà greca e all’opera di Omero. Essa non è solo il primo libro dell’Occidente, ma anche la bibbia del suo patriarcato. Al contrario di tutte, o quasi, le letterature che siamo abituati a definire eroiche, i poemi omerici presentano e descrivono in maniera abbastanza precisa il ruolo del padre: quello di Ulisse con Telemaco e quello di Ettore con Astianatte,rispettivamente nell’Odissea e nell’Iliade. La descrizione di Ettore è semplice ma completa, la più poetica a parere della critica, al punto di arrivare a immaginare che
fosse quella preferita da Omero. Omero si esprime in terza persona e descrive il rapporto del figlio con il padre. Il rapporto di Ettore con il figlio non deriva da qualcosa di preesistente. Il piccolo Astianatte se ne sta tranquillo nelle braccia della nutrice e in quelle della madre, ma quando il padre desidera prenderlo in braccio, spaventato si tira indietro. A differenza
del contatto con la madre, il contatto con il padre non è un fatto originario: questo
incontro non è naturale, gli strati della civiltà si frappongono. Omero non ne parla esplicitamente in questi termini, ma utilizza delle immagini significative per la sua epoca e, anche per noi, molto più convincenti di qualsiasi concetto moderno. Agli occhi del bambino l’uomo assomiglia a una terribile divinità minacciosa, tutta coperta di bronzo e provvista di un elmo ornato da una criniera di cavallo fluttuante. I genitori capiscono che è stata questa immagine a spaventare il piccolo Astianatte e sorridono. Allora Ettore si toglie l’elmo e il bambino si lascia baciare e prendere in braccio. Ettore lo solleva e pronuncia un arcaico Pater noster, in cui chiede a Zeus (padre suo) che questo figlio un giorno sia considerato molto più
forte di lui, il padre. Siamo lontani da certe interpretazioni moderne, in particolare da
quella che pretende di ispirarsi al mito greco privilegiando il mito di Edipo, secondo
la quale il rapporto padre-figlio si fonderebbe sulla competizione e sull’invidia!
Questo gesto verticale, accompagnato da uno sguardo verticale, resterà per sempre il gesto del padre. Esprimerà lo sforzo che questi compie per appartenere a un albero genealogico e assicurare la continuità di un dio-padre nei cieli. È lo sforzo di elevare il figlio al di sopra di sé, la civiltà al di sopra della natura. Di passare dal maschio al padre, dall’erezione all’elevazione.
La forza del gesto resterà intatta nel passaggio dalla Grecia a Roma e segnerà tutta l’antichità classica, epoca in cui il padre conoscerà la sua espressione più elevata. Come vuole la tradizione, quando fugge da Troia in fiamme Enea porta la discendenza dei Troiani in Italia. Ce lo immaginiamo impegnato a traslocare il mondo simbolico di Omero, che trasmetterà a Virgilio, il poeta ufficiale di Roma. Anche l’immagine di Enea in fuga è significativa e verticale: porta il padre Anchise sulle spalle, sopra di sé, e tiene per mano, al di sotto di sé, il figlio Ascanio. È la rappresentazione di un albero genealogico in cammino verso il progetto paterno. Le braccia dell’eroe fondatore – la destra che conduce Ascanio, la sinistra che sorregge Anchise sulle spalle – hanno avuto, per la Roma antica, il valore ideale che le braccia aperte del Cristo hanno ancora per i cristiani. È stato uno dei temi dell’antichità più rappresentati nelle statue, nei dipinti, nei mosaici e nelle monete risalenti al v secolo a.C., quando Roma era stata da poco fondata e mezzo millennio la separava da Virgilio. Augusto, che ha ispirato l’Eneide e il trionfo del patriarcato romano, ha imposto che venisse eretta al centro del Foro una statua di Enea in fuga con il padre e il figlio.
Ma perché, alla sua apoteosi, l’eroe fondatore è rappresentato mentre fugge? La risposta è chiara se ci si riferisce non alla burocrazia della storia, ma ai simboli profondi ai quali Virgilio e Augusto erano sensibili. Il combattimento decisivo che si svolge a Troia devastata dalle fiamme, non è una battaglia occasionale e di breve durata, che oppone i Troiani ai Greci. Si tratta invece dell’opposizione strutturale, millenaria, e ancora inoperante, fra il maschio mescolato a un’orda e l’individuo-maschio responsabile, quello che la società romana voleva incarnare nei padri. Nel II libro dell’Eneide, Enea è costantemente in preda all’esitazione fra l’istinto del combattente e il ragionamento che gli permetterà di salvare i suoi. Oscilla fra il desiderio impulsivo del giovane uomo e il progetto del padre. Il vero percorso compiuto da Enea non si riassume nel viaggio fra Troia e la fondazione di Roma. Enea prende per sempre le distanze dalle fiamme che distruggono Troia e dagli impulsi ardenti dei giovani maschi, per sottoscrivere degli impegni irreversibili e non effimeri, come impone la genealogia. Nella sua fuga, Enea esprimeva la sua generosità verso il padre e in quanto padre dimostrava la stessa coerenza che lo aveva animato quando la esprimeva riguardo al padre Giove. Il gesto di Ettore figura, e non a caso, in una delle principali istituzioni del diritto romano. A Roma, essere padre era un fatto ben definito sul piano sociale e giuridico. La paternità non dipende dalla biologia, ma da un atto formale. Non si riassume nell’aver concepito un figlio con una donna, ma risiede nella dimostrazione che si desidera dare di voler essere padre. Il padre solleva il figlio in pubblico e indica in questo modo che diventa responsabile di lui. Così definita, la semplice paternità fisica non conta: a Roma, ogni paternità “vera” è un’adozione. Questa paternità che passa attraverso l’elevazione del figlio alimenta l’“archetipo” che ci interessa. La sua importanza va ben oltre l’aspetto giuridico e ben oltre i tempi antichi. È sovratemporale e sovraistituzionale: l’elevazione accompagna l’asse verticale che è partito da Ettore e che oggi è interrogato da Bly. All’origine, come afferma il legislatore romano, si ritrova ciò che, secondo la nostra ricostruzione, ha segnato l’inizio della paternità: l’intenzione maschile non si riassume nella semplice concezione di un figlio, ma corrisponde all’instaurazione di un legame stabile con quest’ultimo. Una tale constatazione non riguarda solo il diritto romano della famiglia. Non si tratta di una regola astratta e arbitraria; si assiste al contrario alla
riproduzione della genesi preistorica della famiglia. La potenza di questa legge non deriva dalla forza politica e militare di Roma, ma dalla capacità di riproduzione delle antichissime necessità che hanno assicurato il passaggio dalla vita animale alla famiglia monogamica.
Per Catullo, il padre era il paradigma totale, anche per quanto riguarda l’amore. Per esprimere l’intensità della sua passione alla sua amata, le dice di averla amata «non come il volgo l'amante, / ma come il padre ama i suoi figli» (LXXII). Questo amore paterno, comunque, è sempre la conseguenza di una libera scelta. La condizione del padre – Ritorniamo all’immagine iniziale di Ettore che ama e solleva il figlio, ma che lo spaventa con le armi. Interroghiamo il significato simbolico del rapporto padre-figlio attraverso il diaframma duro e freddo
dell’armatura.
Abbiamo affermato che, per la civiltà, il padre è un colosso dai piedi d’argilla, che
la sua istituzione, in origine onnipotente, in realtà è fragile, perché, a differenza della
madre, deve costantemente essere ricostruito, una generazione dopo l’altra. Ogni istituzione veramente nuova, ogni costruzione culturale rivoluzionaria e nata da poco, ha bisogno di onnipotenza e di rigidità, di fanatismo e di aggressività. Per compensare e negare, ai propri occhi, la precarietà, ricorre alle armi, all’eliminazione dell’avversario e del dubbio. Non si tratta di stabilire un confronto fra l’uomo-padre e la donna-madre; la posta in gioco consiste nell’istituzione culturale del padre, che, come sappiamo, ha bisogno di un’armatura per sopravvivere.
Per questo gli uomini – i padri, non i maschi – hanno inventato le leggi, lo stato e le armature. Queste non si iscrivono nello sviluppo culturale del pene, ma in quello delle difese legate all’angoscia della non esistenza (non dimentichiamo che allo stato animale l’aggressività non è necessariamente propria dei maschi: nei leoni, ad esempio, compete alla femmina uccidere). L’aggressività del padre-uomo non è una condizione naturale. Al contrario, esprime il terrore di ritornarvi. Se in una società la madre perde l’autorità, continua a essere madre. Ma per il padre, è il crollo del significato della sua esistenza.
Per riassumere il mio discorso, affermerò che ciò che differenzia i padri dalle madri, in ogni società e attraverso l’autoritarismo e l’aggressività dei primi, non è la conseguenza di un istinto o di una pulsione combattiva originaria, ma di un ruolo acquisito e della tipica condizione ansiogena che essi si sono dati al centro della civiltà. Come l’elmo di Ettore, questa condizione spesso spaventa inutilmente i figli.
L’elmo di Ettore è fonte di molti altri insegnamenti: ci ricorda che un padre potrebbe capire il terrore che la sua armatura rutilante ispira al figlio, e che potrebbe allora sorridere, deporre la corazza e baciare il figlio come farebbe la madre. Tuttavia la saggezza di Omero va molto al di là. Essa fornisce un’immagine all’alternativa tragica che la storia, immersa in un fiume di sangue, sembra averci voluto lasciare in eredità. In realtà, Ettore è l’unico eroe completo di Omero che sia in grado di esemplificare una sensibilità femminile. L’uccisione di Ettore, che soccombe ad Achille, rappresenta l’apogeo dell’Iliade e rivela i modelli mitici sui quali si basava la società i cui racconti, stratificandosi nel corso dei secoli, formano l’epopea omerica.
Achille infatti è l’antitesi di Ettore. Anche Achille è padre, ma ignoriamo tutto del suo rapporto con il figlio, di cui sappiamo che è un guerriero-uccisore, come lui. Se Ettore è il tronco su cui si basa la famiglia, Achille è la scure che l’abbatte: Andromaca lo ricorda come colui che ha sterminato i suoi, suo padre e i suoi sette fratelli. Se Ettore è la voce che cerca di fermare la distruzione sottoponendo la guerra a regole cavalleresche, Achille è il ruggito che riporta la battaglia in piena giungla.
Alla fine del duello con l’eroe troiano, rifiuta quelle regole, non vuole nessun codice,
e inoltre invoca il sangue che, secondo noi, abbevera le belve: «non esistono patti affidabili fra i leoni e gli uomini, / né possono lupi ed agnelli avere cuore concorde»(XXII, 262s).
Noi pensiamo che, con un’intuizione decisamente profetica, il racconto di Omero abbia scelto, fra i due modelli mitici paterni di cui disponeva, quello che doveva affermarsi. Pensiamo che abbia rinunciato al più completo, quello di Ettore, per favorire quello di Achille, ossia il più debole sul piano familiare ma il più forte a livello pubblico, politico e militare. In questo modo, ci sembra che abbia preannunciato la lenta crescita in potenza, nel corso dei secoli, della sua forza istituzionale, a cui non corrispondeva la stessa differenziazione a livello dei
sentimenti individuali. Si è così arrivati alla degradazione di questi ultimi tempi: alla testa dei grandi stati le grandi metafore paterne hanno rivaleggiato in tirannia e in furto, accelerando quindi il declino della famiglia patriarcale. Si è finito con l’instaurarsi di una pressione di forze pubbliche e private che s’impegnano a gettare il discredito sul padre a tutti i livelli, sociale, familiare e intrapsichico. Prima di rassegnarci, possiamo comunque chiederci se è inevitabile che in tutte le epoche Ettore sia schiacciato da Achille.
Bibliografia:
Luigi Zoja
Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre.
retirado do site da Associazione Italiana dei Magistrati Per i Minorenni e Per La Famiglia
Este é um arquivo particular que compartilho para que os leitores possam conhecer melhor seus direitos.
sexta-feira, 31 de dezembro de 2010
segunda-feira, 27 de dezembro de 2010
Família não consegue suprimir sobrenome paterno por razões religiosas
Uma família judaica teve negado o pedido de retirada do patronímico (sobrenome paterno) para que o casal e os três filhos menores fossem identificados apenas pelo apelido materno. A decisão é da Terceira Turma do Superior Tribunal de Justiça (STJ). Seguindo o voto da relatora, ministra Nancy Andrighi, os ministros entenderam que a Lei n. 6.015/73, que dispõe sobre registros públicos, traz a regra da imutabilidade do sobrenome.
De acordo com os autos da ação de alteração de registro civil de pessoa natural ajuizada pelo casal e pelos três filhos – todos com menos de dez anos de idade –, na ocasião do casamento a mulher optou por acrescentar ao seu o sobrenome do marido. Posteriormente, ele converteu-se ao judaísmo, religião atualmente praticada por toda a família.
O pedido de exclusão do sobrenome do marido e pai das crianças teve por fundamento o fato de que o patronímico não identificaria adequadamente a família perante a comunidade judaica. A supressão foi negada em primeiro grau, decisão que foi mantida pelo Tribunal de Justiça do Estado de São Paulo.
Ao julgar o recurso, a ministra Nancy Andrighi ressaltou que o artigo 56 da Lei de Registros Públicos autoriza, em hipóteses excepcionais, alteração do nome, mas veda expressamente a exclusão do sobrenome.
Segundo a relatora, a regra da imutabilidade do sobrenome fundamenta-se na garantia da segurança jurídica, pois o apelido de família é componente fundamental para identificação social dos indivíduos. “O sobrenome pertence, em última análise, a todo o grupo familiar, de forma que não podem os descendentes dispor livremente do elemento distintivo de sua ancestralidade”, entende Andrighi.
A relatora considerou ainda que a exclusão solicitada poderia trazer sérias consequências para os filhos do casal. Segundo ela, por mais compreensível que sejam os fundamentos de ordem religiosa, nada garante que as crianças vão seguir a religião judaica por toda a vida e que, futuramente, não se rebelarão contra a exclusão do sobrenome que os identificam com a família paterna. Há ainda a possibilidade de ofensa à dignidade dos ascendentes e futuros descendentes.
Outro ponto analisado refere-se ao argumento de que o artigo 1.565, parágrafo primeiro, do Código Civil de 2002 autoriza os nubentes a modificar o nome com o acréscimo do patronímico do outro. A ministra Nancy Andrighi ressaltou que em nenhum momento a lei discorre sobre supressão ou substituição do sobrenome, facultando apenas o acréscimo.
retirado do site do STJ
De acordo com os autos da ação de alteração de registro civil de pessoa natural ajuizada pelo casal e pelos três filhos – todos com menos de dez anos de idade –, na ocasião do casamento a mulher optou por acrescentar ao seu o sobrenome do marido. Posteriormente, ele converteu-se ao judaísmo, religião atualmente praticada por toda a família.
O pedido de exclusão do sobrenome do marido e pai das crianças teve por fundamento o fato de que o patronímico não identificaria adequadamente a família perante a comunidade judaica. A supressão foi negada em primeiro grau, decisão que foi mantida pelo Tribunal de Justiça do Estado de São Paulo.
Ao julgar o recurso, a ministra Nancy Andrighi ressaltou que o artigo 56 da Lei de Registros Públicos autoriza, em hipóteses excepcionais, alteração do nome, mas veda expressamente a exclusão do sobrenome.
Segundo a relatora, a regra da imutabilidade do sobrenome fundamenta-se na garantia da segurança jurídica, pois o apelido de família é componente fundamental para identificação social dos indivíduos. “O sobrenome pertence, em última análise, a todo o grupo familiar, de forma que não podem os descendentes dispor livremente do elemento distintivo de sua ancestralidade”, entende Andrighi.
A relatora considerou ainda que a exclusão solicitada poderia trazer sérias consequências para os filhos do casal. Segundo ela, por mais compreensível que sejam os fundamentos de ordem religiosa, nada garante que as crianças vão seguir a religião judaica por toda a vida e que, futuramente, não se rebelarão contra a exclusão do sobrenome que os identificam com a família paterna. Há ainda a possibilidade de ofensa à dignidade dos ascendentes e futuros descendentes.
Outro ponto analisado refere-se ao argumento de que o artigo 1.565, parágrafo primeiro, do Código Civil de 2002 autoriza os nubentes a modificar o nome com o acréscimo do patronímico do outro. A ministra Nancy Andrighi ressaltou que em nenhum momento a lei discorre sobre supressão ou substituição do sobrenome, facultando apenas o acréscimo.
retirado do site do STJ
quarta-feira, 22 de dezembro de 2010
Partilha de patrimônio de casal homossexual deve ser proporcional ao esforço comum
(clique no título para ver o acórdão)
Na união homoafetiva, a repartição dos bens deve acontecer na proporção da contribuição pessoal, direta e efetiva de cada um. O entendimento da Terceira Turma é o de que, nesses casos, é reconhecida a sociedade de fato entre pessoas do mesmo sexo, exigindo-se a demonstração do esforço comum para aquisição do patrimônio a ser partilhado. A aplicação dos efeitos patrimoniais advindos do reconhecimento da união estável a uma situação jurídica diferente viola o texto expresso da lei.
A decisão se deu durante a análise de dois casos oriundos do Rio Grande do Sul. No primeiro, foi ajuizada ação visando ao reconhecimento e à dissolução de sociedade de fato. O casal conviveu por dez anos, até o falecimento de um deles. O Judiciário local reconheceu a união estável. Os herdeiros apelaram, mas a decisão foi mantida pelo Tribunal de Justiça do Rio Grande do Sul.
No segundo, pretendia-se ver declarada a existência de sociedade de fato com partilha de bens devido à morte de um deles. O Ministério Público gaúcho recorreu ao STJ porque a Justiça gaúcha reconheceu como união estável a existente entre o falecido e o autor da ação e, a partir daí, aplicou os efeitos patrimoniais relativos à partilha do patrimônio deixado. Como o parceiro falecido não tinha herdeiros necessários, o sobrevivente recebeu todo o patrimônio sem precisar demonstrar o esforço conjunto para formá-lo.
Em ambos os recursos a discussão está em definir se, ao admitir a aplicação analógica das normas que regem a união estável à relação ocorrida entre pessoas do mesmo sexo, o tribunal gaúcho afrontou os artigos 1.363 do Código Civil de 1916 e 5º da Constituição Federal.
O desembargador convocado Vasco Della Giustina, relator de ambos os recursos, destacou que o Superior Tribunal de Justiça firmou o entendimento, sob a ótica do direito das obrigações e da evolução da jurisprudência, entende ser possível reconhecer a sociedade de fato havida entre pessoas do mesmo sexo, exigindo-se, para tanto, a demonstração do esforço comum para aquisição do patrimônio a ser partilhado. “A repartição dos bens, sob tal premissa, deve acontecer na proporção da contribuição pessoal, direta e efetiva de cada um dos integrantes de dita sociedade”, explica.
Com a decisão, ambos recursos voltam ao tribunal gaúcho para que a questão seja apreciada no que concerne ao esforço comum empregado pelo autor da demanda na formação do patrimônio amealhado pelo falecido.
Resp 704803
REsp 633713
retirado do site do STJ
Na união homoafetiva, a repartição dos bens deve acontecer na proporção da contribuição pessoal, direta e efetiva de cada um. O entendimento da Terceira Turma é o de que, nesses casos, é reconhecida a sociedade de fato entre pessoas do mesmo sexo, exigindo-se a demonstração do esforço comum para aquisição do patrimônio a ser partilhado. A aplicação dos efeitos patrimoniais advindos do reconhecimento da união estável a uma situação jurídica diferente viola o texto expresso da lei.
A decisão se deu durante a análise de dois casos oriundos do Rio Grande do Sul. No primeiro, foi ajuizada ação visando ao reconhecimento e à dissolução de sociedade de fato. O casal conviveu por dez anos, até o falecimento de um deles. O Judiciário local reconheceu a união estável. Os herdeiros apelaram, mas a decisão foi mantida pelo Tribunal de Justiça do Rio Grande do Sul.
No segundo, pretendia-se ver declarada a existência de sociedade de fato com partilha de bens devido à morte de um deles. O Ministério Público gaúcho recorreu ao STJ porque a Justiça gaúcha reconheceu como união estável a existente entre o falecido e o autor da ação e, a partir daí, aplicou os efeitos patrimoniais relativos à partilha do patrimônio deixado. Como o parceiro falecido não tinha herdeiros necessários, o sobrevivente recebeu todo o patrimônio sem precisar demonstrar o esforço conjunto para formá-lo.
Em ambos os recursos a discussão está em definir se, ao admitir a aplicação analógica das normas que regem a união estável à relação ocorrida entre pessoas do mesmo sexo, o tribunal gaúcho afrontou os artigos 1.363 do Código Civil de 1916 e 5º da Constituição Federal.
O desembargador convocado Vasco Della Giustina, relator de ambos os recursos, destacou que o Superior Tribunal de Justiça firmou o entendimento, sob a ótica do direito das obrigações e da evolução da jurisprudência, entende ser possível reconhecer a sociedade de fato havida entre pessoas do mesmo sexo, exigindo-se, para tanto, a demonstração do esforço comum para aquisição do patrimônio a ser partilhado. “A repartição dos bens, sob tal premissa, deve acontecer na proporção da contribuição pessoal, direta e efetiva de cada um dos integrantes de dita sociedade”, explica.
Com a decisão, ambos recursos voltam ao tribunal gaúcho para que a questão seja apreciada no que concerne ao esforço comum empregado pelo autor da demanda na formação do patrimônio amealhado pelo falecido.
Resp 704803
REsp 633713
retirado do site do STJ
quinta-feira, 16 de dezembro de 2010
Processo Civil de Família - rito no processo de família
O processamento das questões de família possui seu rito previsto no Código de Processo Civil ou em lei especial.
Os processos poderão seguir o rito ordinário, sumário ou especial.
Cada tipo de ação seguirá o rito previsto em lei.
Para a ação de alimentos há rito especial previsto na lei de alimentos. É marcada audiência de conciliação prévia. A contestação somente deverá ser apresentada na audiência de instrução e julgamento onde as provas serão produzidas e a sentença prolatada. O mesmo rito será utilizado para as ações revisionais de alimentos, conforme previsto na referida lei.
Quando não há previsão de rito especial deve ser seguido o rito ordinário, ou seja, o réu é citado e apresenta contestação em 15 dias. Após, o Juiz determina a especificação de provas e designa audiência prevista no art.331 do CPC onde será tentado o acordo e não havendo o Juiz dará o despacho saneador, verificando se as partes são legítimas, se estão representadas adequadamente. Deferirá as provas requeridas e fixará os pontos controvertidos que devem ser esclarecidos na audiência de instrução e julgamento.
Nesta audiência poderão ser colhidos o depoimento pessoal das partes (autor pode pedir o depoimento do réu e o réu pedir o do autor, não o seu próprio) e ouvidas testemunhas e informantes (muito comum em questões de família).
Terminada a colheita de provas as partes farão manifestação final e o Ministério Público (se for o caso) e a sentença será prolatada.
Em regra são ouvidas três testemunhas sobre o mesmo fato, mas poderão ser ouvidas até oito caso seja sobre fatos diferentes.
Outra ações poderão seguir o rito ordinário com a prova pericial de estudo psicológico ou estudo social. Neste caso as partes poderão indicar assistentes técnicos apra acompanhar os estudos e deverão se pronunciar sobre o laudo.
Estas regras são, normalmente, as comuns ao direito de família. A lei determina o prosseguimento de acordo com cada tipo de processo e na ausência de norma específica segue-se o rito ordinário.
Os processos poderão seguir o rito ordinário, sumário ou especial.
Cada tipo de ação seguirá o rito previsto em lei.
Para a ação de alimentos há rito especial previsto na lei de alimentos. É marcada audiência de conciliação prévia. A contestação somente deverá ser apresentada na audiência de instrução e julgamento onde as provas serão produzidas e a sentença prolatada. O mesmo rito será utilizado para as ações revisionais de alimentos, conforme previsto na referida lei.
Quando não há previsão de rito especial deve ser seguido o rito ordinário, ou seja, o réu é citado e apresenta contestação em 15 dias. Após, o Juiz determina a especificação de provas e designa audiência prevista no art.331 do CPC onde será tentado o acordo e não havendo o Juiz dará o despacho saneador, verificando se as partes são legítimas, se estão representadas adequadamente. Deferirá as provas requeridas e fixará os pontos controvertidos que devem ser esclarecidos na audiência de instrução e julgamento.
Nesta audiência poderão ser colhidos o depoimento pessoal das partes (autor pode pedir o depoimento do réu e o réu pedir o do autor, não o seu próprio) e ouvidas testemunhas e informantes (muito comum em questões de família).
Terminada a colheita de provas as partes farão manifestação final e o Ministério Público (se for o caso) e a sentença será prolatada.
Em regra são ouvidas três testemunhas sobre o mesmo fato, mas poderão ser ouvidas até oito caso seja sobre fatos diferentes.
Outra ações poderão seguir o rito ordinário com a prova pericial de estudo psicológico ou estudo social. Neste caso as partes poderão indicar assistentes técnicos apra acompanhar os estudos e deverão se pronunciar sobre o laudo.
Estas regras são, normalmente, as comuns ao direito de família. A lei determina o prosseguimento de acordo com cada tipo de processo e na ausência de norma específica segue-se o rito ordinário.
quarta-feira, 15 de dezembro de 2010
Novas Ferramentas de Pesquisa do STJ
A Secretaria de Jurisprudência do STJ apresenta aos usuários mais quatro opções de serviços de pesquisa na base do Tribunal, além da ferramenta de pesquisa de jurisprudência, que é a área mais acessada no Portal/STJ.
Os novos serviços foram desenvolvidos a partir da experiência da equipe da Secretaria, bem como de sugestões e críticas dos usuários externos e internos do serviço de pesquisa.
Para acessar o serviço de sua preferência, basta clicar no título e depois clicar na imagem.
Pesquisa pronta
Serviço diferenciado que oferece pesquisas específicas na base de jurisprudência do STJ, organizadas por temas jurídicos e atualizadas em tempo real.
Legislação aplicada
Seleção de julgados que representam a interpretação e a aplicabilidade conferidas pelo STJ à legislação infraconstitucional.
Repetitivos
Apresenta índice alfabético-remissivo, organizado por tema, com todos os acórdãos de recursos repetitivos julgados pelo STJ e publicados no DJe, como determina a Lei 11.672/08.
Súmulas anotadas
Apresenta acórdãos que demonstram a interpretação e a aplicação das súmulas editadas pelo STJ nas decisões do Tribunal a partir da data de publicação de cada súmula.
retirada do site do STJ
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Súmulas anotadas
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terça-feira, 14 de dezembro de 2010
O que é o Regime de Bens entre os Cônjuges?
O Código Civil prevê o Regime de Bens entre os Cônjuges a partir do art. 1.639.
Quando duas pessoas vão se casar é importante que discutam com relação aos seus bens. Como será a divisão do que adquirirem durante o casamento? Os bens poderão ser comprados ou recebidos por herança ou doação e todos eles serão divididos entre o casal ou pertencerão apenas a um dos dois? Enfim, são questões que devem ser discutidas previamente para evitar surpresas depois.
Antes de celebrado o casamento os noivos poderão estipular o que quiserem sobre os seus bens, observadas algumas regras básicas previstas no Código Civil que deve ser lido para melhor compreensão das normas.
O regime de bens começa a vigorar desde a data do casamento, portanto não vale para o período anterior ao casamento, embora alguns efeitos possam alcançar bens adquiridos anteriormente.Por isso, deve-se ter atenção.
Novidade do Código Civil de 2002 é a possibilidade de no curso do casamento, ser possível a alteração do regime de bens. Deve ser proposta ação com pedido motivado de ambos os cônjuges requerendo autorização judicial para a mudança. O Juiz, apurando a procedência das razões invocadas e ressalvados os direitos de terceiros, poderá autorizar a mudança.
Caso não haja qualquer convenção prévia entre os noivos, ou sendo ela nula ou ineficaz, o regime que prevalecerá é o da comunhão parcial.
Os noivos, no processo de habilitação, poderão optar por qualquer dos regimes regulados pelo código. O cartório lavrará uma escritura pública denominada pacto antenupcial quando houver opção por outro regime que não o da comunhão parcial. Neste regime não há necessidade de escritura, apenas constará como sendo o regime legal.
Em alguns casos será obrigatório o regime da separação de bens no casamento. Será obrigatório: para as pessoas que o contraírem com inobservância das causas suspensivas da celebração do casamento; para a pessoa maior de 70 (setenta) anos; (Redação dada pela Lei nº 12.344, de 2010); para todos os que dependerem, para casar, de suprimento judicial.
Em qualquer que seja o regime de bens, tanto o marido quanto a mulher podem livremente praticar todos os atos de disposição e de administração necessários ao desempenho de sua profissão, com as limitações estabelecida no inciso I do art. 1.647;administrar os bens próprios; desobrigar ou reivindicar os imóveis que tenham sido gravados ou alienados sem o seu consentimento ou sem suprimento judicial; demandar a rescisão dos contratos de fiança e doação, ou a invalidação do aval, realizados pelo outro cônjuge com infração do disposto nos incisos III e IV do art. 1.647;
reivindicar os bens comuns, móveis ou imóveis, doados ou transferidos pelo outro cônjuge ao concubino, desde que provado que os bens não foram adquiridos pelo esforço comum destes, se o casal estiver separado de fato por mais de cinco anos; praticar todos os atos que não lhes forem vedados expressamente.
Após o casamento, marido e mulher poderão livremente comprar as coisas necessárias à economia doméstica; fazer empréstimos para obter tais bens e as dívidas para aquisição destes bens obrigam solidariamente ambos os cônjuges, ou seja, cada um é responsável por toda a dívida.
Nenhum dos cônjuges pode, sem autorização do outro, exceto no regime da separação absoluta
alienar ou gravar de ônus real os bens imóveis; pleitear, como autor ou réu, acerca desses bens ou direitos;prestar fiança ou aval;fazer doação, não sendo remuneratória, de bens comuns, ou dos que possam integrar futura meação. Se um cônjuge não quiser autorizar o outro sem motivo justo cabe pedir ao Juiz o suprimento da outorga, caso contrário o ato será anulável a pedido do outro cônjuge, ou seus herdeiros, no prazo de até dois anos após o fim da sociedade conjugal.
A aprovação torna válido o ato, desde que feita por instrumento público, ou particular, autenticado.
Quando um dos cônjuges não puder exercer a administração dos bens que lhe incumbe, segundo o regime de bens, caberá ao outro: gerir os bens comuns e os do consorte; alienar os bens móveis comuns; alienar os imóveis comuns e os móveis ou imóveis do consorte, mediante autorização judicial.
Essas são as normas gerais para o regime de bens. Muitas outras se seguem, mas serão analisadas por cada tipo de regime.
Quando duas pessoas vão se casar é importante que discutam com relação aos seus bens. Como será a divisão do que adquirirem durante o casamento? Os bens poderão ser comprados ou recebidos por herança ou doação e todos eles serão divididos entre o casal ou pertencerão apenas a um dos dois? Enfim, são questões que devem ser discutidas previamente para evitar surpresas depois.
Antes de celebrado o casamento os noivos poderão estipular o que quiserem sobre os seus bens, observadas algumas regras básicas previstas no Código Civil que deve ser lido para melhor compreensão das normas.
O regime de bens começa a vigorar desde a data do casamento, portanto não vale para o período anterior ao casamento, embora alguns efeitos possam alcançar bens adquiridos anteriormente.Por isso, deve-se ter atenção.
Novidade do Código Civil de 2002 é a possibilidade de no curso do casamento, ser possível a alteração do regime de bens. Deve ser proposta ação com pedido motivado de ambos os cônjuges requerendo autorização judicial para a mudança. O Juiz, apurando a procedência das razões invocadas e ressalvados os direitos de terceiros, poderá autorizar a mudança.
Caso não haja qualquer convenção prévia entre os noivos, ou sendo ela nula ou ineficaz, o regime que prevalecerá é o da comunhão parcial.
Os noivos, no processo de habilitação, poderão optar por qualquer dos regimes regulados pelo código. O cartório lavrará uma escritura pública denominada pacto antenupcial quando houver opção por outro regime que não o da comunhão parcial. Neste regime não há necessidade de escritura, apenas constará como sendo o regime legal.
Em alguns casos será obrigatório o regime da separação de bens no casamento. Será obrigatório: para as pessoas que o contraírem com inobservância das causas suspensivas da celebração do casamento; para a pessoa maior de 70 (setenta) anos; (Redação dada pela Lei nº 12.344, de 2010); para todos os que dependerem, para casar, de suprimento judicial.
Em qualquer que seja o regime de bens, tanto o marido quanto a mulher podem livremente praticar todos os atos de disposição e de administração necessários ao desempenho de sua profissão, com as limitações estabelecida no inciso I do art. 1.647;administrar os bens próprios; desobrigar ou reivindicar os imóveis que tenham sido gravados ou alienados sem o seu consentimento ou sem suprimento judicial; demandar a rescisão dos contratos de fiança e doação, ou a invalidação do aval, realizados pelo outro cônjuge com infração do disposto nos incisos III e IV do art. 1.647;
reivindicar os bens comuns, móveis ou imóveis, doados ou transferidos pelo outro cônjuge ao concubino, desde que provado que os bens não foram adquiridos pelo esforço comum destes, se o casal estiver separado de fato por mais de cinco anos; praticar todos os atos que não lhes forem vedados expressamente.
Após o casamento, marido e mulher poderão livremente comprar as coisas necessárias à economia doméstica; fazer empréstimos para obter tais bens e as dívidas para aquisição destes bens obrigam solidariamente ambos os cônjuges, ou seja, cada um é responsável por toda a dívida.
Nenhum dos cônjuges pode, sem autorização do outro, exceto no regime da separação absoluta
alienar ou gravar de ônus real os bens imóveis; pleitear, como autor ou réu, acerca desses bens ou direitos;prestar fiança ou aval;fazer doação, não sendo remuneratória, de bens comuns, ou dos que possam integrar futura meação. Se um cônjuge não quiser autorizar o outro sem motivo justo cabe pedir ao Juiz o suprimento da outorga, caso contrário o ato será anulável a pedido do outro cônjuge, ou seus herdeiros, no prazo de até dois anos após o fim da sociedade conjugal.
A aprovação torna válido o ato, desde que feita por instrumento público, ou particular, autenticado.
Quando um dos cônjuges não puder exercer a administração dos bens que lhe incumbe, segundo o regime de bens, caberá ao outro: gerir os bens comuns e os do consorte; alienar os bens móveis comuns; alienar os imóveis comuns e os móveis ou imóveis do consorte, mediante autorização judicial.
Essas são as normas gerais para o regime de bens. Muitas outras se seguem, mas serão analisadas por cada tipo de regime.
Regime de separação obrigatório e alteração judicial do regime para os que não alcançaram 70 anos
Com a nova lei que modifica a idade para o regime de bens de separação obrigatória algumas questões são colocadas.
A idade aumentou para 70 anos. O legislador buscou conceder mais autonomia às pessoas que desejam se casar, porém tendo como objetivo proteger estas pessoas e suas famílias de eventual risco patrimonial.
Não há dúvidas da ingerência estatal na vontade das pessoas, o que é questionável. Mas a lei deve ser cumprida.
Com os casamentos em curso, uma pessoa que foi obrigada por lei ao regime da separação obrigatório que ainda não tenha alcançado os 70 anos poderá mudar o regime de bens através da norma prevista no art.1.639 § 2º do Código Civil que diz "É lícito aos nubentes, antes de celebrado o casamento, estipular, quanto aos seus bens, o que lhes aprouver...§ 2o É admissível alteração do regime de bens, mediante autorização judicial em pedido motivado de ambos os cônjuges, apurada a procedência das razões invocadas e ressalvados os direitos de terceiros.
Não há dúvidas de que a mudança legislativa recente autoriza a alteração do regime para aqueles que se casaram com o regime obrigatório caso ainda não tenha sido alcançada a idade de 70 anos.
Se um adulto pode exercer função pública até 70 anos de idade não tem cabimento privá-lo de decidir sua vida patrimonial. A mudança é positiva e poderá ser objeto de novas ações judiciais em Varas de Família.
A idade aumentou para 70 anos. O legislador buscou conceder mais autonomia às pessoas que desejam se casar, porém tendo como objetivo proteger estas pessoas e suas famílias de eventual risco patrimonial.
Não há dúvidas da ingerência estatal na vontade das pessoas, o que é questionável. Mas a lei deve ser cumprida.
Com os casamentos em curso, uma pessoa que foi obrigada por lei ao regime da separação obrigatório que ainda não tenha alcançado os 70 anos poderá mudar o regime de bens através da norma prevista no art.1.639 § 2º do Código Civil que diz "É lícito aos nubentes, antes de celebrado o casamento, estipular, quanto aos seus bens, o que lhes aprouver...§ 2o É admissível alteração do regime de bens, mediante autorização judicial em pedido motivado de ambos os cônjuges, apurada a procedência das razões invocadas e ressalvados os direitos de terceiros.
Não há dúvidas de que a mudança legislativa recente autoriza a alteração do regime para aqueles que se casaram com o regime obrigatório caso ainda não tenha sido alcançada a idade de 70 anos.
Se um adulto pode exercer função pública até 70 anos de idade não tem cabimento privá-lo de decidir sua vida patrimonial. A mudança é positiva e poderá ser objeto de novas ações judiciais em Varas de Família.
Homossexual poderá incluir parceiro como dependente no IR em 2011
"As uniões estáveis de casais homossexuais serão reconhecidas, a partir de 2011, na declaração de Imposto de Renda da Pesso Física (IRPF). A informação foi confirmada na manhã desta segunda-feira (13) pela Receita Federal, que divulgou ainda que o prazo para a declaração tem início em março do ano que vem.
De acordo com o supervisor nacional do Imposto de Renda da Receita, Joaquim Adir, os casais do mesmo sexo poderão reconhecer o parceiro como dependente apenas assinalando a opção ‘companheiro’ no documento.
"É só assinalar companheiro. Não fazemos diferenciação. Caso tenham que comprovar posteriormente [em um eventual processo de fiscalização], ele tem de juntar os elementos para comprovar a união estável, ou seja, há mais de cinco anos", informou Adir, representante do Fisco. Os contribuintes também podem fazer a retificação das declarações apresentadas dos últimos cinco anos."
Com esta nova rega é possível que aumentem o número de escrituras de declaração de união estável lavradas em cartório, bem como ações judiciais para declaração de união estável entre pessoas do mesmo sexo que deverão tramitar em Vara de Família.
Quanto ao prazo especificado de 5 anos, tal não é exigido nas ações de declaração de união estável, pois a lei que o exigia não está mais em vigor. Assim, basta que o Juiz reconheça a existência da união estável sem que se exija prazo definido. Afinal, não há prazo para configuração de casamento e não pode haver para configuração de união estável.
Os casais homossexuais poderão, então, declarar a união estável em cartório ou requerer a homologação de acordo de existência de união estável através de ação judicial. As partes que não puderem contratar um advogado poderão ingressar com a ação através da Defensoria Pública. Mesmo com advogado, caso não haja condições de pagar as custas do processo, poderão requerer a gratuidade de justiça.
De acordo com o supervisor nacional do Imposto de Renda da Receita, Joaquim Adir, os casais do mesmo sexo poderão reconhecer o parceiro como dependente apenas assinalando a opção ‘companheiro’ no documento.
"É só assinalar companheiro. Não fazemos diferenciação. Caso tenham que comprovar posteriormente [em um eventual processo de fiscalização], ele tem de juntar os elementos para comprovar a união estável, ou seja, há mais de cinco anos", informou Adir, representante do Fisco. Os contribuintes também podem fazer a retificação das declarações apresentadas dos últimos cinco anos."
Com esta nova rega é possível que aumentem o número de escrituras de declaração de união estável lavradas em cartório, bem como ações judiciais para declaração de união estável entre pessoas do mesmo sexo que deverão tramitar em Vara de Família.
Quanto ao prazo especificado de 5 anos, tal não é exigido nas ações de declaração de união estável, pois a lei que o exigia não está mais em vigor. Assim, basta que o Juiz reconheça a existência da união estável sem que se exija prazo definido. Afinal, não há prazo para configuração de casamento e não pode haver para configuração de união estável.
Os casais homossexuais poderão, então, declarar a união estável em cartório ou requerer a homologação de acordo de existência de união estável através de ação judicial. As partes que não puderem contratar um advogado poderão ingressar com a ação através da Defensoria Pública. Mesmo com advogado, caso não haja condições de pagar as custas do processo, poderão requerer a gratuidade de justiça.
sexta-feira, 10 de dezembro de 2010
INSS inclui parceiro do mesmo sexo como dependente
Os benefícios da Previdência Social a dependentes devem incluir parceiros do mesmo sexo, em união estável. É o que determina portaria do Ministério da Previdência, publicada nesta sexta-feira no Diário Oficial da União. De acordo com o texto, o Instituto Nacional do Seguro Social (INSS) adotará as providências necessárias para o cumprimento da determinação.
O comunicado informa que o benefício já era válido no caso de morte do parceiro. Na prática, ele é concedido a parceiros homoafeitvos desde 2000, com base numa liminar, o que poderia suspendê-lo a qualquer instante. Com a portaria publicada nesta sexta-feira, o pagamento nesse caso fica garantido.
O INSS adotará as providências necessárias para o cumprimento da determinação. A decisão leva em consideração conceitos do Código Civil Brasileiro e da Constituição Federal, no sentido de promover o bem comum, sem qualquer forma de discriminação.
Desde agosto, o contribuinte que tem uma relação estável homossexual de mais de cinco anos pode incluir como dependente seu parceiro ou parceira na declaração do Imposto de Renda da Pessoa Física (IRPF). As determinações equiparam a união homoafetiva ao casamento.
Os benefícios foram analisados e aprovados pelo governo após parecer sobre os direitos dos casais homoafetivos feito pela Procuradoria-Geral da Fazenda Nacional (PGFN) e que deverá ser usado como base para outras decisões referentes aos direitos de homossexuais. A própria PFGN usou como base no seu documento decisões favoráveis concedidas pela Justiça para casos de pensão do INSS e herança de família.
retirado do site do IBDFAM
O comunicado informa que o benefício já era válido no caso de morte do parceiro. Na prática, ele é concedido a parceiros homoafeitvos desde 2000, com base numa liminar, o que poderia suspendê-lo a qualquer instante. Com a portaria publicada nesta sexta-feira, o pagamento nesse caso fica garantido.
O INSS adotará as providências necessárias para o cumprimento da determinação. A decisão leva em consideração conceitos do Código Civil Brasileiro e da Constituição Federal, no sentido de promover o bem comum, sem qualquer forma de discriminação.
Desde agosto, o contribuinte que tem uma relação estável homossexual de mais de cinco anos pode incluir como dependente seu parceiro ou parceira na declaração do Imposto de Renda da Pessoa Física (IRPF). As determinações equiparam a união homoafetiva ao casamento.
Os benefícios foram analisados e aprovados pelo governo após parecer sobre os direitos dos casais homoafetivos feito pela Procuradoria-Geral da Fazenda Nacional (PGFN) e que deverá ser usado como base para outras decisões referentes aos direitos de homossexuais. A própria PFGN usou como base no seu documento decisões favoráveis concedidas pela Justiça para casos de pensão do INSS e herança de família.
retirado do site do IBDFAM
Lei aumenta a idade para imposição de regime da separação de bens no casamento
LEI Nº 12.344, DE 9 DE DEZEMBRO DE 2010.
Altera a redação do inciso II do art. 1.641 da Lei no 10.406, de 10 de janeiro de 2002 (Código Civil), para aumentar para 70 (setenta) anos a idade a partir da qual se torna obrigatório o regime da separação de bens no casamento.
O PRESIDENTE DA REPÚBLICA Faço saber que o Congresso Nacional decreta e eu sanciono a seguinte Lei:
Art. 1o O inciso II do caput do art. 1.641 da Lei no 10.406, de 10 de janeiro de 2002 (Código Civil), passa a vigorar com a seguinte redação:
“Art. 1.641. .................................................................
II – da pessoa maior de 70 (setenta) anos;...” (NR)
Art. 2o Esta Lei entra em vigor na data de sua publicação.
Brasília, 9 de dezembro de 2010; 189o da Independência e 122o da República.
Altera a redação do inciso II do art. 1.641 da Lei no 10.406, de 10 de janeiro de 2002 (Código Civil), para aumentar para 70 (setenta) anos a idade a partir da qual se torna obrigatório o regime da separação de bens no casamento.
O PRESIDENTE DA REPÚBLICA Faço saber que o Congresso Nacional decreta e eu sanciono a seguinte Lei:
Art. 1o O inciso II do caput do art. 1.641 da Lei no 10.406, de 10 de janeiro de 2002 (Código Civil), passa a vigorar com a seguinte redação:
“Art. 1.641. .................................................................
II – da pessoa maior de 70 (setenta) anos;...” (NR)
Art. 2o Esta Lei entra em vigor na data de sua publicação.
Brasília, 9 de dezembro de 2010; 189o da Independência e 122o da República.
terça-feira, 7 de dezembro de 2010
Parte deve ser intimada para acompanhar perícia psicológica
Em processo que discute regulamentação de visitas, existe prejuízo para mãe de menor em decorrência de sua não intimação para o início de perícia psicológica, fato determinante para a declaração de nulidade do ato. A conclusão é da Terceira Turma do Superior Tribunal de Justiça (STJ), ao julgar recurso que questiona parecer técnico de perito judicial realizado sem a intimação de um dos genitores de menor.
No caso, trata-se de ações de regulamentação de visitas e medida cautelar ajuizadas, respectivamente, pelo pai e pela mãe de criança, hoje com oito anos. Em razão de possível abuso sexual, relatado em laudo psicológico – que teria sido praticado pelo pai da criança quando esta contava com três anos –, foi determinada a suspensão da visita paterna.
Em sequência, determinou-se a realização de perícia, que foi iniciada em setembro de 2006 e finalizada em julho de 2007. Em relação a essa perícia, a mãe da criança alegou a ocorrência de “vício insanável”, pedindo a declaração de sua nulidade, uma vez que não foi intimada da data do início dos trabalhos do perito judicial, o que impediu o acompanhamento da assistente técnica por ela regularmente indicada.
O juiz de primeiro grau, com base no parecer do perito judicial – que concluiu pela inexistência de abuso sexual –, revogou a liminar e restabeleceu a visitação paterna. Inconformada, a mãe interpôs um agravo de instrumento com o objetivo de declarar nula a perícia. O Tribunal de Justiça do Paraná (TJPR) manteve a visitação paterna com a necessidade de monitoramento. A mãe, então, recorreu ao STJ.
Segundo o ministro Sidnei Beneti, relator do recurso, não se deve declarar a nulidade do ato sem a demonstração do efetivo prejuízo decorrente da não intimação prévia do assistente técnico. A ministra Nancy Andrighi pediu vista do processo para melhor exame da questão.
Em seu voto-vista, a ministra destacou que as problemáticas envolvendo o universo da psicologia têm alta carga de subjetividade na linha adotada pelo perito, na forma e no foco dados ao problema, no ambiente onde irá ocorrer a perícia, nas fontes consultadas e nos métodos empregados para se chegar às conclusões e resultados.
Segundo a ministra Nancy Andrighi, exatamente em decorrência disso, o acompanhamento da perícia deveria ter sido propiciado ao assistente da mãe da criança desde o primeiro momento, sob pena de supressão de dados, os quais, tomados sob outro prisma, poderiam levar à conclusão diversa, ou, ainda, mais grave.
“Nessa linha, ouso afirmar que, para hipóteses como a em julgamento, a rígida observância do procedimento previsto no CPC é imprescindível, mormente a estabelecida no artigo 431-A, porque a intimação do início da produção da prova propicia à parte e ao seu assistente, além do singelo acompanhamento do desenvolvimento da perícia, o questionamento da capacidade técnico-científica do perito indicado e sua eventual substituição, nos termos do artigo 424, inciso I, do CPC, como também a apresentação de quesitos suplementares”, concluiu a ministra, ressaltando que não se pode “deixar à deriva a salvaguarda do melhor interesse de uma criança”.
Os ministros Massami Uyeda e Paulo de Tarso Sanseverino e o desembargador convocado Vasco Della Giustina seguiram o entendimento da ministra Nancy Andrighi. Dessa forma, a Terceira Turma do STJ determinou a anulação de todos os atos procedimentais desde a perícia e a intimação da mãe quando do ulterior início da produção de novo laudo pericial. A ministra lavrará o acórdão.
O número deste processo não é divulgado por tramitar sob sigilo.
retirado do site do STJ
No caso, trata-se de ações de regulamentação de visitas e medida cautelar ajuizadas, respectivamente, pelo pai e pela mãe de criança, hoje com oito anos. Em razão de possível abuso sexual, relatado em laudo psicológico – que teria sido praticado pelo pai da criança quando esta contava com três anos –, foi determinada a suspensão da visita paterna.
Em sequência, determinou-se a realização de perícia, que foi iniciada em setembro de 2006 e finalizada em julho de 2007. Em relação a essa perícia, a mãe da criança alegou a ocorrência de “vício insanável”, pedindo a declaração de sua nulidade, uma vez que não foi intimada da data do início dos trabalhos do perito judicial, o que impediu o acompanhamento da assistente técnica por ela regularmente indicada.
O juiz de primeiro grau, com base no parecer do perito judicial – que concluiu pela inexistência de abuso sexual –, revogou a liminar e restabeleceu a visitação paterna. Inconformada, a mãe interpôs um agravo de instrumento com o objetivo de declarar nula a perícia. O Tribunal de Justiça do Paraná (TJPR) manteve a visitação paterna com a necessidade de monitoramento. A mãe, então, recorreu ao STJ.
Segundo o ministro Sidnei Beneti, relator do recurso, não se deve declarar a nulidade do ato sem a demonstração do efetivo prejuízo decorrente da não intimação prévia do assistente técnico. A ministra Nancy Andrighi pediu vista do processo para melhor exame da questão.
Em seu voto-vista, a ministra destacou que as problemáticas envolvendo o universo da psicologia têm alta carga de subjetividade na linha adotada pelo perito, na forma e no foco dados ao problema, no ambiente onde irá ocorrer a perícia, nas fontes consultadas e nos métodos empregados para se chegar às conclusões e resultados.
Segundo a ministra Nancy Andrighi, exatamente em decorrência disso, o acompanhamento da perícia deveria ter sido propiciado ao assistente da mãe da criança desde o primeiro momento, sob pena de supressão de dados, os quais, tomados sob outro prisma, poderiam levar à conclusão diversa, ou, ainda, mais grave.
“Nessa linha, ouso afirmar que, para hipóteses como a em julgamento, a rígida observância do procedimento previsto no CPC é imprescindível, mormente a estabelecida no artigo 431-A, porque a intimação do início da produção da prova propicia à parte e ao seu assistente, além do singelo acompanhamento do desenvolvimento da perícia, o questionamento da capacidade técnico-científica do perito indicado e sua eventual substituição, nos termos do artigo 424, inciso I, do CPC, como também a apresentação de quesitos suplementares”, concluiu a ministra, ressaltando que não se pode “deixar à deriva a salvaguarda do melhor interesse de uma criança”.
Os ministros Massami Uyeda e Paulo de Tarso Sanseverino e o desembargador convocado Vasco Della Giustina seguiram o entendimento da ministra Nancy Andrighi. Dessa forma, a Terceira Turma do STJ determinou a anulação de todos os atos procedimentais desde a perícia e a intimação da mãe quando do ulterior início da produção de novo laudo pericial. A ministra lavrará o acórdão.
O número deste processo não é divulgado por tramitar sob sigilo.
retirado do site do STJ
Jursiprudência do Tribunal de Justiça do Rio de Janeiro - união homossexual
Poder Judiciário do Estado do Rio de Janeiro
Banco do Conhecimento
Divisão de Gestão de Acervos Jurisprudenciais (DGCOON//DIJJUR)Data da
União Homoafetiva – Inventário/Partilha
Tribunal de Justiça do Estado do Rio de Janeiro
0003498-29.2008.8.19.0064 (2009.001.32425) - APELACAO
DES. RICARDO COUTO - Julgamento: 07/10/2009 - SETIMA CAMARA CIVEL
REINTEGRAÇÃO DE POSSE. A posse se configura pelo exercício de poderes inerentes à propriedade, onde o contato físico imediato não é necessário, bastando lembrar a idéia da posse indireta. Comprovada a relação homoafetiva, a posse do bem onde vivia o casal deve ser assegurada à companheira sobrevivente, a quem cabe administrar a herança, diante da analogia com a união estável. A obstrução da entrada no imóvel, com a troca de fechaduras, efetivada por terceiro, exterioriza o esbulho da posse e dá ensejo à sua reintegração. Recurso conhecido e desprovido.
- Data de Julgamento: 07/10/2009 Relatório de 16/06/2009
0006114-11.2009.8.19.0203 (2009.001.59940) - APELACAO -
DES. ALEXANDRE CAMARA - Julgamento: 21/10/2009 - SEGUNDA CAMARA CIVEL RELACAO HOMOAFETIVA INVENTARIO PARTILHA DE BENS LEGITIMIDADE ATIVA PROSSEGUIMENTO DO PROCESSO RESERVA DE BENS
Direito processual civil. Inventário e partilha. Demanda formulada por pessoa que afirma sua condição de companheira da autora da herança, com quem viveria em união homoafetiva. Sentença de extinção do processo por ilegitimidade ativa. Reforma da sentença. Extinção que não se justifica se o processo de inventário e partilha pode, até mesmo, ser instaurado de ofício. Ademais, o art. 987 do CPC confere legitimidade ativa para postular o inventário a quem estiver na posse e administração dos bens.
Prosseguimento do processo, com reserva dos bens que podem vir a caber à apelante, que ajuizou demanda de reconhecimento da existência da união. Recurso parcialmente provido.
- Data de Julgamento: 21/10/2009
0003873-96.2002.8.19.0207 (2006.001.49088) - APELACAO -
DES. BINATO DE CASTRO - Julgamento: 14/08/2007 - DECIMA SEGUNDA CAMARA CIVEL
APELAÇÃO CIVIL. UNIÃO HOMOAFETIVA. Verbas rescisórias do de cujus que devem ser divididas igualitariamente entre sua filha e seu companheiro. Isonomia de direitos assegurada pela Constituição da República de 1988. Desprovimento da apelação.
REV. DIREITO DO T.J.E.R.J., vol 73, pag 132
- Data de Julgamento: 14/08/2007
0011983-47.2003.8.19.0208 (2006.001.27892) - APELACAO
DES. CELIO GERALDO M. RIBEIRO - Julgamento: 08/08/2006 - DECIMA SEGUNDA CAMARA CIVEL
Apelação cível. União homoafetiva havida entre apelante e apelado, durante o período de 1987 a 2001. Reconhecimento pelo juízo monocrático da existência de sociedade de fato entre ambos, com a determinação da partilha dos bens por eles adquiridos com o esforço comum. Prova produzida neste processo, a impor a partilha meio a meio entre eles. Aplicação à espécie do disposto na Súmula 380. STF. Determinação da liquidação do patrimônio, decorrente da sociedade de fato em tela entre apelante e apelado. consoante o disposto no artigo 1218, VII.CPC e artigos 671 e 673, do Decreto-Lei 1608/39 (Código de Processo Civil de 1939). Recurso conhecido e improvido.
Data de Julgamento: 08/08/2006
0006014-63.2003.8.19.0204 (2005.001.28842) - APELACAO
DES. JOSE GERALDO ANTONIO - Julgamento: 04/10/2005 - DECIMA CAMARA CIVEL SOCIEDADE DE FATO HOMOSSEXUALISMO ESFORCO COMUM NA FORMACAO DO PATRIMONIO
PARTILHA DE BENS LEGALIDADE
Dissolucao de sociedade de fato. Relacao homossexual. Julgamento "ultra petita". Nao configuracao. Sucumbencia reciproca. Inocorrencia. Nao configura julgamento "ultra petita" quando o pedido inicial busca a partilha do imovel adquirido com o esforco comum, em razao da uniao homoafetiva, e a decisao reconhece a existencia de uma sociedade de fato, sendo irrelevante a falta de pedido expresso da sua dissolucao. Comprovada a existencia da sociedade de fato entre os conviventes do mesmo sexo, cabivel a sua dissolucao judicial e a partilha do patrimonio se demonstrada a sua aquisicao pelo esforco comum. Nao ha' sucumbencia reciproca quando a sentenca acolhe um dos pedidos alternativos formulados na inicial. Improvimento do recurso.
Data de Julgamento: 04/10/2005
A íntegra de cada acórdão está em segredo de justiça
Disponibilizado pela Equipe do Serviço de Estruturação do Conhecimento (DGCON/SEESC)do TJRJ
Banco do Conhecimento
Divisão de Gestão de Acervos Jurisprudenciais (DGCOON//DIJJUR)Data da
União Homoafetiva – Inventário/Partilha
Tribunal de Justiça do Estado do Rio de Janeiro
0003498-29.2008.8.19.0064 (2009.001.32425) - APELACAO
DES. RICARDO COUTO - Julgamento: 07/10/2009 - SETIMA CAMARA CIVEL
REINTEGRAÇÃO DE POSSE. A posse se configura pelo exercício de poderes inerentes à propriedade, onde o contato físico imediato não é necessário, bastando lembrar a idéia da posse indireta. Comprovada a relação homoafetiva, a posse do bem onde vivia o casal deve ser assegurada à companheira sobrevivente, a quem cabe administrar a herança, diante da analogia com a união estável. A obstrução da entrada no imóvel, com a troca de fechaduras, efetivada por terceiro, exterioriza o esbulho da posse e dá ensejo à sua reintegração. Recurso conhecido e desprovido.
- Data de Julgamento: 07/10/2009 Relatório de 16/06/2009
0006114-11.2009.8.19.0203 (2009.001.59940) - APELACAO -
DES. ALEXANDRE CAMARA - Julgamento: 21/10/2009 - SEGUNDA CAMARA CIVEL RELACAO HOMOAFETIVA INVENTARIO PARTILHA DE BENS LEGITIMIDADE ATIVA PROSSEGUIMENTO DO PROCESSO RESERVA DE BENS
Direito processual civil. Inventário e partilha. Demanda formulada por pessoa que afirma sua condição de companheira da autora da herança, com quem viveria em união homoafetiva. Sentença de extinção do processo por ilegitimidade ativa. Reforma da sentença. Extinção que não se justifica se o processo de inventário e partilha pode, até mesmo, ser instaurado de ofício. Ademais, o art. 987 do CPC confere legitimidade ativa para postular o inventário a quem estiver na posse e administração dos bens.
Prosseguimento do processo, com reserva dos bens que podem vir a caber à apelante, que ajuizou demanda de reconhecimento da existência da união. Recurso parcialmente provido.
- Data de Julgamento: 21/10/2009
0003873-96.2002.8.19.0207 (2006.001.49088) - APELACAO -
DES. BINATO DE CASTRO - Julgamento: 14/08/2007 - DECIMA SEGUNDA CAMARA CIVEL
APELAÇÃO CIVIL. UNIÃO HOMOAFETIVA. Verbas rescisórias do de cujus que devem ser divididas igualitariamente entre sua filha e seu companheiro. Isonomia de direitos assegurada pela Constituição da República de 1988. Desprovimento da apelação.
REV. DIREITO DO T.J.E.R.J., vol 73, pag 132
- Data de Julgamento: 14/08/2007
0011983-47.2003.8.19.0208 (2006.001.27892) - APELACAO
DES. CELIO GERALDO M. RIBEIRO - Julgamento: 08/08/2006 - DECIMA SEGUNDA CAMARA CIVEL
Apelação cível. União homoafetiva havida entre apelante e apelado, durante o período de 1987 a 2001. Reconhecimento pelo juízo monocrático da existência de sociedade de fato entre ambos, com a determinação da partilha dos bens por eles adquiridos com o esforço comum. Prova produzida neste processo, a impor a partilha meio a meio entre eles. Aplicação à espécie do disposto na Súmula 380. STF. Determinação da liquidação do patrimônio, decorrente da sociedade de fato em tela entre apelante e apelado. consoante o disposto no artigo 1218, VII.CPC e artigos 671 e 673, do Decreto-Lei 1608/39 (Código de Processo Civil de 1939). Recurso conhecido e improvido.
Data de Julgamento: 08/08/2006
0006014-63.2003.8.19.0204 (2005.001.28842) - APELACAO
DES. JOSE GERALDO ANTONIO - Julgamento: 04/10/2005 - DECIMA CAMARA CIVEL SOCIEDADE DE FATO HOMOSSEXUALISMO ESFORCO COMUM NA FORMACAO DO PATRIMONIO
PARTILHA DE BENS LEGALIDADE
Dissolucao de sociedade de fato. Relacao homossexual. Julgamento "ultra petita". Nao configuracao. Sucumbencia reciproca. Inocorrencia. Nao configura julgamento "ultra petita" quando o pedido inicial busca a partilha do imovel adquirido com o esforco comum, em razao da uniao homoafetiva, e a decisao reconhece a existencia de uma sociedade de fato, sendo irrelevante a falta de pedido expresso da sua dissolucao. Comprovada a existencia da sociedade de fato entre os conviventes do mesmo sexo, cabivel a sua dissolucao judicial e a partilha do patrimonio se demonstrada a sua aquisicao pelo esforco comum. Nao ha' sucumbencia reciproca quando a sentenca acolhe um dos pedidos alternativos formulados na inicial. Improvimento do recurso.
Data de Julgamento: 04/10/2005
A íntegra de cada acórdão está em segredo de justiça
Disponibilizado pela Equipe do Serviço de Estruturação do Conhecimento (DGCON/SEESC)do TJRJ
segunda-feira, 6 de dezembro de 2010
Sentença que fixa alimentos inferiores aos provisórios, pendentes de pagamento, não retroage
A sentença que fixa pensão alimentícia em valores inferiores aos provisórios não retroage para alcançar aqueles estabelecidos e pendentes de pagamento. O entendimento é da Quarta Turma do Superior Tribunal de Justiça (STJ), que fixou a tese em um recurso especial oriundo do Rio de Janeiro. O relator é o ministro Aldir Passarinho Junior.
No recurso, os alimentados contestavam decisão do Tribunal de Justiça do Rio de Janeiro (TJRJ) que permitiu alteração da planilha para se ajustar os valores àqueles fixados na sentença. O órgão aplicou o artigo 13, parágrafo 2º, da Lei n. 5.478/1968, relativo à revisão de sentenças proferidas em pedidos de pensão alimentícia e respectivas execuções.
Para a Quarta Turma, os alimentos não se repetem, de modo que a retroação à data da citação dos valores fixados em montante inferior não se opera para fins de compensação do que foi pago em valor maior. O mesmo vale para os pagamentos em débito, como no caso julgado. A tese fixada pelo TJRJ, segundo a Turma, incentivaria o inadimplemento, ficando agredida, com isso, a própria razão de ser dos alimentos não definitivos.
Resp 905986
do site do IBDFAM
No recurso, os alimentados contestavam decisão do Tribunal de Justiça do Rio de Janeiro (TJRJ) que permitiu alteração da planilha para se ajustar os valores àqueles fixados na sentença. O órgão aplicou o artigo 13, parágrafo 2º, da Lei n. 5.478/1968, relativo à revisão de sentenças proferidas em pedidos de pensão alimentícia e respectivas execuções.
Para a Quarta Turma, os alimentos não se repetem, de modo que a retroação à data da citação dos valores fixados em montante inferior não se opera para fins de compensação do que foi pago em valor maior. O mesmo vale para os pagamentos em débito, como no caso julgado. A tese fixada pelo TJRJ, segundo a Turma, incentivaria o inadimplemento, ficando agredida, com isso, a própria razão de ser dos alimentos não definitivos.
Resp 905986
do site do IBDFAM
sexta-feira, 19 de novembro de 2010
Minas terá cadeia só para devedores de pensão
A grande população carcerária formada atualmente por 400 homens que não pagam ou estão em atraso com a pensão alimentícia dos filhos em Minas vai alterar a estrutura do sistema prisional no Estado. Semana passada, o subsecretário de Administração Prisional, Genilson Zeferino, anunciou um estudo sobre a criação de um local específico para abrigar homens nessa situação.
A unidade, segundo Zeferino, recebeu o nome provisório de Centro de Referência de Devedores de Pensão Alimentícia. Só na capital, estão presos atualmente 50 homens em débito com o compromisso. No interior, os presos ficam recolhidos em penitenciárias ou em cadeias de delegacias da Polícia Civil.
De acordo com a coordenadora da Defensoria Pública de Minas Gerais das áreas Cível e de Família, Marta Rosado, a iniciativa de ter uma ala específica para homens nessa situação é importante. "É uma inovação. Esse é um preso diferente. Ele não infringiu a lei penal e não pode ser misturado a alguém que praticou um homicídio. Essa medida é a garantia dos direitos humanos."
Segundo Marta, a grande maioria dos presos por não-pagamento de pensão não tem condições de pagar o valor estipulado pelo juiz e, por isso, acaba na prisão.
Avós
A legislação afirma que, quando o pai não pode arcar com a pensão do filho, passa a ser dos avós a responsabilidade, caso eles sejam questionados judicialmente. Assim, os avós ficam sujeitos às mesmas penalidades, podendo, portanto, ser detidos pelo prazo de 90 dias.
Prisão pode ultrapassar 90 dias
A quantidade de homens que passam pelas unidades prisionais por causa da inadimplência com o pagamento da pensão alimentícia varia muito, de acordo com informações da Subsecretaria de Administração Prisional (Suapi).
Nos últimos dois anos, no entanto, de acordo com o órgão, o número tem se mantido o mesmo, apesar de considerado alto (350 no interior e 50 na capital).
Conforme a legislação, quem é preso pelo não-pagamento do benefício estipulado pela Justiça só pode ficar detido por até 90 dias. Para ser solto, o devedor deve quitar o pagamento ou fazer um acordo. Se não quitar a dívida dentro do período de três meses, o devedor é solto, mas tem os bens usados como garantia do pagamento.
Valores
O valor da pensão, quando definido pela Justiça, é estipulado a partir da necessidade apresentada por quem solicita a assistência e também pela capacidade financeira do pai (ou mãe, em casos mais raros).
Provocado judicialmente pela inadimplência, o devedor tem prazo de três dias para quitar o valor ou justificar o atraso. Se isso não for feito, ele pode ser preso mediante mandado expedido pelo juiz. (RR)
retirado do site do IBDFAM
A unidade, segundo Zeferino, recebeu o nome provisório de Centro de Referência de Devedores de Pensão Alimentícia. Só na capital, estão presos atualmente 50 homens em débito com o compromisso. No interior, os presos ficam recolhidos em penitenciárias ou em cadeias de delegacias da Polícia Civil.
De acordo com a coordenadora da Defensoria Pública de Minas Gerais das áreas Cível e de Família, Marta Rosado, a iniciativa de ter uma ala específica para homens nessa situação é importante. "É uma inovação. Esse é um preso diferente. Ele não infringiu a lei penal e não pode ser misturado a alguém que praticou um homicídio. Essa medida é a garantia dos direitos humanos."
Segundo Marta, a grande maioria dos presos por não-pagamento de pensão não tem condições de pagar o valor estipulado pelo juiz e, por isso, acaba na prisão.
Avós
A legislação afirma que, quando o pai não pode arcar com a pensão do filho, passa a ser dos avós a responsabilidade, caso eles sejam questionados judicialmente. Assim, os avós ficam sujeitos às mesmas penalidades, podendo, portanto, ser detidos pelo prazo de 90 dias.
Prisão pode ultrapassar 90 dias
A quantidade de homens que passam pelas unidades prisionais por causa da inadimplência com o pagamento da pensão alimentícia varia muito, de acordo com informações da Subsecretaria de Administração Prisional (Suapi).
Nos últimos dois anos, no entanto, de acordo com o órgão, o número tem se mantido o mesmo, apesar de considerado alto (350 no interior e 50 na capital).
Conforme a legislação, quem é preso pelo não-pagamento do benefício estipulado pela Justiça só pode ficar detido por até 90 dias. Para ser solto, o devedor deve quitar o pagamento ou fazer um acordo. Se não quitar a dívida dentro do período de três meses, o devedor é solto, mas tem os bens usados como garantia do pagamento.
Valores
O valor da pensão, quando definido pela Justiça, é estipulado a partir da necessidade apresentada por quem solicita a assistência e também pela capacidade financeira do pai (ou mãe, em casos mais raros).
Provocado judicialmente pela inadimplência, o devedor tem prazo de três dias para quitar o valor ou justificar o atraso. Se isso não for feito, ele pode ser preso mediante mandado expedido pelo juiz. (RR)
retirado do site do IBDFAM
quarta-feira, 17 de novembro de 2010
Cônjuge sobrevivente casado pelo regime de separação convencional de bens tem direito de concorrência hereditária com descendentes do falecido.
Após apresentada a decisão do STJ no sentido de que o cônjuge sobrevivente casado pelo regime de separação convencional de bens não tem direito de concorrência hereditária com descendentes do falecido apresentaremos o entendimento doutrinário de Zeno Veloso sobre o tema, em sentido oposto.
O autor defende que haverá concorrência entre o cônjuge sobrevivente e os descendentes do de cujus no regime da separação convencional de bens, no regime da participação final nos aquestos e no regime da comunhão parcial de bens, se o autor da herança deixou bens particulares.
O art.1829, I do CC indicou os regimes de bens do casamento em que não ocorre a concorrência sucessória do cônjuge com os descendentes, e não está citado o regime da separação convencional, o que leva à conclusão de que há concorrência entre o cônjuge e os descendentes se o casamento seguiu esse regime da separação convencional do art. 1687. Em decisões dos Tribunais de Justiça de São Paulo e do Rio Grande do Sul, assim foi decidido.
Apresenta o pensamento de Miguel Reale que opina ser a expressão separação obrigatória de sentido abrangente das duas hipóteses de separação previstas no art. 1641 e no artigo 1687. Desta forma, para Reale, o cônjuge não concorreria com os descendentes, em caso contrário seria ferido o direito previsto no art.1687 gerando conflito inadmissível entre esse artigo e o art. 1829, I, devendo a interpretação ser sistemática. Se não desejou partilhar os bens em vida, quanto mais após a morte.
Veloso afirma que esse entendimento não pode prevalecer lembrando que se o de cujus não deixar descendentes, nem ascendentes, o herdeiro é o cônjuge qualquer que seja o regime de bens, sucedendo por inteiro, conforme art. 1838. O cônjuge no regime da separação absoluta de bens afasta os irmãos e outros colaterais do falecido.
As questões devem ser tratadas nos dois planos distintos. O plano do regime de bens que perdura enquanto vivo o casal e a sociedade conjugal permanecendo. O outro, quando ocorre a sucessão em razão da morte que segue regras próprias à sucessão.
Em sua opinião a decisão do STJ, que por unanimidade seguiu o entendimento de Reale, estaria violando preceito legal. A separação obrigatória não se confunde com a separação convencional que decorreu da livre manifestação de vontade dos interessados não cabendo ao intérprete da lei ampliar o elenco normativo por ser regra excepcional e não conter menção ao regime de separação convencional.
Conclui no sentido de que o entendimento do STJ considerou o caso concreto, pois o falecido tinha cinqüenta e um anos de idade e a mulher vinte e um e ao se casar já tinha constituído patrimônio e padecia de doença incapacitante e o casamento durou apenas dez meses, mas que deve prevalecer o entendimento da doutrina e jurisprudência majoritários no sentido de que se aplique a disposição do código civil, ou seja, o cônjuge casado sobre o regime da separação obrigatória de bens não concorre com os descendentes do de cujus; o cônjuge casado sob o regime da separação convencional de bens, concorre com os descendentes do falecido.
O entendimento doutrinário está apresentado em VELOSO, Zeno. Direito hereditário do cônjuge e do companheiro, Ed. Saraiva, 2010, pg69/72.
O autor defende que haverá concorrência entre o cônjuge sobrevivente e os descendentes do de cujus no regime da separação convencional de bens, no regime da participação final nos aquestos e no regime da comunhão parcial de bens, se o autor da herança deixou bens particulares.
O art.1829, I do CC indicou os regimes de bens do casamento em que não ocorre a concorrência sucessória do cônjuge com os descendentes, e não está citado o regime da separação convencional, o que leva à conclusão de que há concorrência entre o cônjuge e os descendentes se o casamento seguiu esse regime da separação convencional do art. 1687. Em decisões dos Tribunais de Justiça de São Paulo e do Rio Grande do Sul, assim foi decidido.
Apresenta o pensamento de Miguel Reale que opina ser a expressão separação obrigatória de sentido abrangente das duas hipóteses de separação previstas no art. 1641 e no artigo 1687. Desta forma, para Reale, o cônjuge não concorreria com os descendentes, em caso contrário seria ferido o direito previsto no art.1687 gerando conflito inadmissível entre esse artigo e o art. 1829, I, devendo a interpretação ser sistemática. Se não desejou partilhar os bens em vida, quanto mais após a morte.
Veloso afirma que esse entendimento não pode prevalecer lembrando que se o de cujus não deixar descendentes, nem ascendentes, o herdeiro é o cônjuge qualquer que seja o regime de bens, sucedendo por inteiro, conforme art. 1838. O cônjuge no regime da separação absoluta de bens afasta os irmãos e outros colaterais do falecido.
As questões devem ser tratadas nos dois planos distintos. O plano do regime de bens que perdura enquanto vivo o casal e a sociedade conjugal permanecendo. O outro, quando ocorre a sucessão em razão da morte que segue regras próprias à sucessão.
Em sua opinião a decisão do STJ, que por unanimidade seguiu o entendimento de Reale, estaria violando preceito legal. A separação obrigatória não se confunde com a separação convencional que decorreu da livre manifestação de vontade dos interessados não cabendo ao intérprete da lei ampliar o elenco normativo por ser regra excepcional e não conter menção ao regime de separação convencional.
Conclui no sentido de que o entendimento do STJ considerou o caso concreto, pois o falecido tinha cinqüenta e um anos de idade e a mulher vinte e um e ao se casar já tinha constituído patrimônio e padecia de doença incapacitante e o casamento durou apenas dez meses, mas que deve prevalecer o entendimento da doutrina e jurisprudência majoritários no sentido de que se aplique a disposição do código civil, ou seja, o cônjuge casado sobre o regime da separação obrigatória de bens não concorre com os descendentes do de cujus; o cônjuge casado sob o regime da separação convencional de bens, concorre com os descendentes do falecido.
O entendimento doutrinário está apresentado em VELOSO, Zeno. Direito hereditário do cônjuge e do companheiro, Ed. Saraiva, 2010, pg69/72.
Cônjuge sobrevivente casado pelo regime de separação convencional de bens e não ocorrência do direito de concorrência hereditária com descendentes do falecido
Ementa (para ler a íntegra do acórdão clique no título)
Direito civil. Família e Sucessões. Recurso especial. Inventário e partilha. Cônjuge sobrevivente casado pelo regime de separação convencional de bens, celebrado por meio de pacto antenupcial por escritura pública. Interpretação do art. 1.829, I, do CC/02. Direito de concorrência hereditária com descendentes do falecido. Não ocorrência.
- Impositiva a análise do art. 1.829, I, do CC/02, dentro do contexto do sistema jurídico, interpretando o dispositivo em harmonia com os demais que enfeixam a temática, em atenta
observância dos princípios e diretrizes teóricas que lhe dão forma, marcadamente, a dignidade da pessoa humana, que se espraia, no plano da livre manifestação da vontade humana, por meio da autonomia da vontade, da autonomia privada e da consequente autorresponsabilidade, bem como da confiança legítima, da qual brota a boa fé; a eticidade, por fim, vem complementar o sustentáculo principiológico que deve delinear os contornos da norma jurídica.
- Até o advento da Lei n.º 6.515/77 (Lei do Divórcio), vigeu no Direito brasileiro, como regime legal de bens, o da comunhão universal, no qual o cônjuge sobrevivente não concorre à herança,
por já lhe ser conferida a meação sobre a totalidade do patrimônio do casal; a partir da vigência da Lei do Divórcio, contudo, o regime legal de bens no casamento passou a ser o da comunhão parcial, o que foi referendado pelo art. 1.640 do CC/02.
- Preserva-se o regime da comunhão parcial de bens, de acordo com o postulado da autodeterminação, ao contemplar o cônjuge sobrevivente com o direito à meação, além da concorrência hereditária sobre os bens comuns, mesmo que haja bens particulares, os quais, em qualquer hipótese, são partilhados unicamente entre os descendentes.
- O regime de separação obrigatória de bens, previsto no art. 1.829, inc. I, do CC/02, é gênero que congrega duas espécies: (i) separação legal; (ii) separação convencional. Uma decorre da lei e a outra da vontade das partes, e ambas obrigam os cônjuges, uma vez estipulado o regime de separação de bens, à sua observância.
- Não remanesce, para o cônjuge casado mediante separação de bens, direito à meação, tampouco à concorrência sucessória, respeitando-se o regime de bens estipulado, que obriga as partes na vida e na morte. Nos dois casos, portanto, o cônjuge sobrevivente não é herdeiro necessário.
- Entendimento em sentido diverso, suscitaria clara antinomia entre os arts. 1.829, inc. I, e 1.687, do CC/02, o que geraria uma quebra da unidade sistemática da lei codificada, e provocaria a morte do regime de separação de bens. Por isso, deve prevalecer a interpretação que conjuga e torna complementares os citados dispositivos.
- No processo analisado, a situação fática vivenciada pelo casal – declarada desde já a insuscetibilidade de seu reexame nesta via recursal – é a seguinte: (i) não houve longa convivência, mas um casamento que durou meses, mais especificamente, 10 meses; (ii)
quando desse segundo casamento, o autor da herança já havia formado todo seu patrimônio e padecia de doença incapacitante; (iii) os nubentes escolheram voluntariamente casar pelo regime da separação convencional, optando, por meio de pacto antenupcial lavrado em escritura pública, pela incomunicabilidade de todos os bens adquiridos antes e depois do casamento, inclusive frutos e rendimentos.
- A ampla liberdade advinda da possibilidade de pactuação quanto ao regime matrimonial de bens, prevista pelo Direito Patrimonial de Família, não pode ser toldada pela imposição fleumática do Direito das Sucessões, porque o fenômeno sucessório “traduz a continuação da personalidade do morto pela projeção jurídica dos arranjos patrimoniais feitos em vida”.
- Trata-se, pois, de um ato de liberdade conjuntamente exercido, ao qual o fenômeno sucessório não pode estabelecer limitações..
- Se o casal firmou pacto no sentido de não ter patrimônio comum e, se não requereu a alteração do regime estipulado, não houve doação de um cônjuge ao outro durante o casamento, tampouco foi deixado testamento ou legado para o cônjuge sobrevivente, quando seria livre e lícita qualquer dessas providências, não deve o intérprete da lei alçar o cônjuge sobrevivente à condição de herdeiro necessário, concorrendo com os descendentes, sob pena de clara violação ao regime de bens pactuado.
- Haveria, induvidosamente, em tais situações, a alteração do regime matrimonial de bens post mortem, ou seja, com o fim do casamento pela morte de um dos cônjuges, seria alterado o regime de separação convencional de bens pactuado em vida, permitindo ao cônjuge sobrevivente o recebimento de bens de exclusiva propriedade do autor da herança, patrimônio ao qual recusou, quando do pacto antenupcial, por vontade própria.
- Por fim, cumpre invocar a boa fé objetiva, como exigência de lealdade e honestidade na conduta das partes, no sentido de que o cônjuge sobrevivente, após manifestar de forma livre e lícita a sua vontade, não pode dela se esquivar e, por conseguinte, arvorar-se em direito do qual solenemente declinou, ao estipular, no processo de habilitação para o casamento, conjuntamente com o autor da herança, o regime de separação convencional de bens, em pacto antenupcial por
escritura pública.
- O princípio da exclusividade, que rege a vida do casal e veda a interferência de terceiros ou do próprio Estado nas opções feitas licitamente quanto aos aspectos patrimoniais e extrapatrimoniais da vida familiar, robustece a única interpretação viável do art. 1.829,
inc. I, do CC/02, em consonância com o art. 1.687 do mesmo código, que assegura os efeitos práticos do regime de bens licitamente escolhido, bem como preserva a autonomia privada guindada pela eticidade.
Recurso especial provido.
Pedido cautelar incidental julgado prejudicado.
retirado do site do STJ
Direito civil. Família e Sucessões. Recurso especial. Inventário e partilha. Cônjuge sobrevivente casado pelo regime de separação convencional de bens, celebrado por meio de pacto antenupcial por escritura pública. Interpretação do art. 1.829, I, do CC/02. Direito de concorrência hereditária com descendentes do falecido. Não ocorrência.
- Impositiva a análise do art. 1.829, I, do CC/02, dentro do contexto do sistema jurídico, interpretando o dispositivo em harmonia com os demais que enfeixam a temática, em atenta
observância dos princípios e diretrizes teóricas que lhe dão forma, marcadamente, a dignidade da pessoa humana, que se espraia, no plano da livre manifestação da vontade humana, por meio da autonomia da vontade, da autonomia privada e da consequente autorresponsabilidade, bem como da confiança legítima, da qual brota a boa fé; a eticidade, por fim, vem complementar o sustentáculo principiológico que deve delinear os contornos da norma jurídica.
- Até o advento da Lei n.º 6.515/77 (Lei do Divórcio), vigeu no Direito brasileiro, como regime legal de bens, o da comunhão universal, no qual o cônjuge sobrevivente não concorre à herança,
por já lhe ser conferida a meação sobre a totalidade do patrimônio do casal; a partir da vigência da Lei do Divórcio, contudo, o regime legal de bens no casamento passou a ser o da comunhão parcial, o que foi referendado pelo art. 1.640 do CC/02.
- Preserva-se o regime da comunhão parcial de bens, de acordo com o postulado da autodeterminação, ao contemplar o cônjuge sobrevivente com o direito à meação, além da concorrência hereditária sobre os bens comuns, mesmo que haja bens particulares, os quais, em qualquer hipótese, são partilhados unicamente entre os descendentes.
- O regime de separação obrigatória de bens, previsto no art. 1.829, inc. I, do CC/02, é gênero que congrega duas espécies: (i) separação legal; (ii) separação convencional. Uma decorre da lei e a outra da vontade das partes, e ambas obrigam os cônjuges, uma vez estipulado o regime de separação de bens, à sua observância.
- Não remanesce, para o cônjuge casado mediante separação de bens, direito à meação, tampouco à concorrência sucessória, respeitando-se o regime de bens estipulado, que obriga as partes na vida e na morte. Nos dois casos, portanto, o cônjuge sobrevivente não é herdeiro necessário.
- Entendimento em sentido diverso, suscitaria clara antinomia entre os arts. 1.829, inc. I, e 1.687, do CC/02, o que geraria uma quebra da unidade sistemática da lei codificada, e provocaria a morte do regime de separação de bens. Por isso, deve prevalecer a interpretação que conjuga e torna complementares os citados dispositivos.
- No processo analisado, a situação fática vivenciada pelo casal – declarada desde já a insuscetibilidade de seu reexame nesta via recursal – é a seguinte: (i) não houve longa convivência, mas um casamento que durou meses, mais especificamente, 10 meses; (ii)
quando desse segundo casamento, o autor da herança já havia formado todo seu patrimônio e padecia de doença incapacitante; (iii) os nubentes escolheram voluntariamente casar pelo regime da separação convencional, optando, por meio de pacto antenupcial lavrado em escritura pública, pela incomunicabilidade de todos os bens adquiridos antes e depois do casamento, inclusive frutos e rendimentos.
- A ampla liberdade advinda da possibilidade de pactuação quanto ao regime matrimonial de bens, prevista pelo Direito Patrimonial de Família, não pode ser toldada pela imposição fleumática do Direito das Sucessões, porque o fenômeno sucessório “traduz a continuação da personalidade do morto pela projeção jurídica dos arranjos patrimoniais feitos em vida”.
- Trata-se, pois, de um ato de liberdade conjuntamente exercido, ao qual o fenômeno sucessório não pode estabelecer limitações..
- Se o casal firmou pacto no sentido de não ter patrimônio comum e, se não requereu a alteração do regime estipulado, não houve doação de um cônjuge ao outro durante o casamento, tampouco foi deixado testamento ou legado para o cônjuge sobrevivente, quando seria livre e lícita qualquer dessas providências, não deve o intérprete da lei alçar o cônjuge sobrevivente à condição de herdeiro necessário, concorrendo com os descendentes, sob pena de clara violação ao regime de bens pactuado.
- Haveria, induvidosamente, em tais situações, a alteração do regime matrimonial de bens post mortem, ou seja, com o fim do casamento pela morte de um dos cônjuges, seria alterado o regime de separação convencional de bens pactuado em vida, permitindo ao cônjuge sobrevivente o recebimento de bens de exclusiva propriedade do autor da herança, patrimônio ao qual recusou, quando do pacto antenupcial, por vontade própria.
- Por fim, cumpre invocar a boa fé objetiva, como exigência de lealdade e honestidade na conduta das partes, no sentido de que o cônjuge sobrevivente, após manifestar de forma livre e lícita a sua vontade, não pode dela se esquivar e, por conseguinte, arvorar-se em direito do qual solenemente declinou, ao estipular, no processo de habilitação para o casamento, conjuntamente com o autor da herança, o regime de separação convencional de bens, em pacto antenupcial por
escritura pública.
- O princípio da exclusividade, que rege a vida do casal e veda a interferência de terceiros ou do próprio Estado nas opções feitas licitamente quanto aos aspectos patrimoniais e extrapatrimoniais da vida familiar, robustece a única interpretação viável do art. 1.829,
inc. I, do CC/02, em consonância com o art. 1.687 do mesmo código, que assegura os efeitos práticos do regime de bens licitamente escolhido, bem como preserva a autonomia privada guindada pela eticidade.
Recurso especial provido.
Pedido cautelar incidental julgado prejudicado.
retirado do site do STJ
Imóvel vazio pode ser penhorado mesmo que a família não possua outro
O único imóvel da família, se estiver desocupado, poderá ser penhorado para o pagamento de dívidas. O entendimento foi adotado pela Terceira Turma do Superior Tribunal de Justiça (STJ), ao rejeitar a pretensão de um recorrente de São Paulo que desejava ver desconstituída a penhora sobre apartamento pertencente a ele e sua mulher.
O relator do recurso julgado pela Terceira Turma, ministro Sidnei Beneti, considerou que o imóvel não poderia ser penhorado por conta da Lei n. 8.009/1990, que impede a penhora do bem de família. A maioria da Turma, no entanto, seguiu o voto divergente da ministra Nancy Andrighi e reconheceu a penhorabilidade do apartamento.
De acordo com a ministra, o fato de uma família não utilizar seu único imóvel como residência não afasta automaticamente a proteção da Lei n. 8.009/90. O STJ já decidiu, em outros julgamentos, que, mesmo não sendo a residência da família, o imóvel não poderá ser penhorado se servir à sua subsistência – por exemplo, se estiver alugado para complemento da renda familiar.
No caso de São Paulo, porém, constatou-se durante o processo que o apartamento estava vazio. Ele havia sido penhorado por causa de uma dívida, resultante do descumprimento de acordo homologado judicialmente. O marido da devedora apresentou embargos de terceiros na ação de execução, alegando tratar-se de bem de família, impossível de ser penhorado. O juiz de primeira instância acatou seu pedido e desconstituiu a penhora.
No Tribunal de Justiça de São Paulo (TJSP), a situação foi revertida em favor do credor. Os desembargadores paulistas consideraram que a penhora ocorrera quando o imóvel não servia de residência do casal. O fato de o apartamento não estar ocupado foi verificado por perito, cujas fotografias integram o processo.
Ao analisar o recurso contra a decisão da Justiça paulista, a ministra Nancy Andrighi afirmou que “a jurisprudência do STJ a respeito do tema se firmou considerando a necessidade de utilização do imóvel em proveito da família, como, por exemplo, a locação para garantir a subsistência da entidade familiar ou o pagamento de dívidas”.
Ela observou, porém, que no caso em julgamento não havia essa particularidade: “O apartamento do recorrente está desabitado e, portanto, não cumpre o objetivo da Lei n. 8.009/90, de garantir a moradia familiar ou a subsistência da família.” Segundo a ministra, cabia ao recorrente a responsabilidade de provar que o apartamento se enquadrava no conceito de bem de família, mas isso não ocorreu.
retirado do site do STJ
O relator do recurso julgado pela Terceira Turma, ministro Sidnei Beneti, considerou que o imóvel não poderia ser penhorado por conta da Lei n. 8.009/1990, que impede a penhora do bem de família. A maioria da Turma, no entanto, seguiu o voto divergente da ministra Nancy Andrighi e reconheceu a penhorabilidade do apartamento.
De acordo com a ministra, o fato de uma família não utilizar seu único imóvel como residência não afasta automaticamente a proteção da Lei n. 8.009/90. O STJ já decidiu, em outros julgamentos, que, mesmo não sendo a residência da família, o imóvel não poderá ser penhorado se servir à sua subsistência – por exemplo, se estiver alugado para complemento da renda familiar.
No caso de São Paulo, porém, constatou-se durante o processo que o apartamento estava vazio. Ele havia sido penhorado por causa de uma dívida, resultante do descumprimento de acordo homologado judicialmente. O marido da devedora apresentou embargos de terceiros na ação de execução, alegando tratar-se de bem de família, impossível de ser penhorado. O juiz de primeira instância acatou seu pedido e desconstituiu a penhora.
No Tribunal de Justiça de São Paulo (TJSP), a situação foi revertida em favor do credor. Os desembargadores paulistas consideraram que a penhora ocorrera quando o imóvel não servia de residência do casal. O fato de o apartamento não estar ocupado foi verificado por perito, cujas fotografias integram o processo.
Ao analisar o recurso contra a decisão da Justiça paulista, a ministra Nancy Andrighi afirmou que “a jurisprudência do STJ a respeito do tema se firmou considerando a necessidade de utilização do imóvel em proveito da família, como, por exemplo, a locação para garantir a subsistência da entidade familiar ou o pagamento de dívidas”.
Ela observou, porém, que no caso em julgamento não havia essa particularidade: “O apartamento do recorrente está desabitado e, portanto, não cumpre o objetivo da Lei n. 8.009/90, de garantir a moradia familiar ou a subsistência da família.” Segundo a ministra, cabia ao recorrente a responsabilidade de provar que o apartamento se enquadrava no conceito de bem de família, mas isso não ocorreu.
retirado do site do STJ
quinta-feira, 11 de novembro de 2010
Briga de divorciados pela guarda de animais será regulada por lei
Por priscilatardin
A guarda de Belinha foi decidida na Justiça
Lendo a Revista Época da semana passada, vi uma reportagem interessante. Nas páginas 108 e 109, a revista tratava da guarda de animais de estimação após a separação do casal. Quem, como eu, milita na área do Direito de Família, às vezes se depara com situações um tanto curiosas. A reportagem falava sobre a solução encontrada por um casal que tinha acabado de divorciar: ela ficou com os dois cachorros e ele, com um hamster. Foi o bastante para remeter a minha memória a uma audiência na 15ª Vara de Família da Comarca da Capital, em julho deste ano, quando eu advogava para o marido que ajuizou ação de Separação de Corpos contra a esposa. No meio da discussão acirrada foi levantada uma questão: os hamsters que o casal criava ficariam com quem? Eram duas fêmeas, mãe e filha, a Tetéia e a Belinha. Felizmente não houve maiores desavenças, ambos concordaram que cada um ficaria com uma. Ao meu cliente — que concordou com a exposição no blog da experiência vivida por ele — coube a Belinha (foto). E foi o acordo quanto ao destino dos animais que quebrou a tensão da audiência. Até a juíza Maria Aglae Tedesco Vilardo viu graça na história e confessou: “Em tantos anos de magistratura, essa é a primeira vez que partilho hamsters.”
Problema maior haveria na ausência de acordo entre as partes, pois a questão ainda não está regulada pelo Direito brasileiro, pelo menos, não ainda. De acordo com Época, “um projeto de lei do deputado federal Márcio França (PSB-SP) estabelece uma nova regra para essa situação. O Brasil não tem uma legislação específica sobre o assunto. As decisões dos tribunais têm adotado a mesma linha de raciocínio da lei dos Estados Unidos. Lá os animais de estimação são considerados propriedade. Ficam com quem os comprou — ou quem tem o nome no pedigree. Essa jurisprudência tem ditado as decisões nos casos que chegam aos tribunais. Quem tinha amor ao cão que pertencia ao ex-amor acabava ficando num mato sem cachorro, sem a lei ao seu lado. Pelo projeto de lei proposto agora no Brasil, a propriedade é um dos fatores a ser pesado, mas não o único.”
No caso de Belinha e Tetéia, a questão da propriedade não ajudaria muito, caso não tivesse havido acordo. Até onde entendo, hamsters não têm pedigree e o valor de mercado não ultrapassa R$ 10 cada. E mesmo assim, a Belinha sequer foi comprada: nasceu da Tetéia.
Voltando à reportagem: “A legislação proposta estabelece que, caso provocada, a Justiça deve decidir por aquele que tem mais condições para ficar com o animal e mais vínculo com ele. O projeto tramita na Câmara em caráter conclusivo. Isso significa que não precisa ir a plenário, basta que passe nas comissões internas. Projetos que não revogam leis existentes ou que são considerados sem importância para ir a plenário são aprovados sem votação. Não há prazo para isso acontecer.”
O último parágrafo da reportagem, assinada por Nelito Fernandes, traz um questionamento razoável: “Ainda que deixe margem a algumas dúvidas, a jurisprudência atual tem uma regra clara, que é a propriedade. O projeto de lei conta com algo bastante subjetivo: como definir quem tem mais afeto e condições de cuidar do animal?”
No meu entendimento, questões que envolvem sentimentos, ainda que por um animal de estimação, merecem, sim, uma avaliação de acordo com cada caso. Nem sempre quem pagou pelo animal é quem nutre maior carinho pelo bicho. Está acertada a idéia do deputado Márcio França.
retirado do blog http://fmanha.com.br/blogs
A guarda de Belinha foi decidida na Justiça
Lendo a Revista Época da semana passada, vi uma reportagem interessante. Nas páginas 108 e 109, a revista tratava da guarda de animais de estimação após a separação do casal. Quem, como eu, milita na área do Direito de Família, às vezes se depara com situações um tanto curiosas. A reportagem falava sobre a solução encontrada por um casal que tinha acabado de divorciar: ela ficou com os dois cachorros e ele, com um hamster. Foi o bastante para remeter a minha memória a uma audiência na 15ª Vara de Família da Comarca da Capital, em julho deste ano, quando eu advogava para o marido que ajuizou ação de Separação de Corpos contra a esposa. No meio da discussão acirrada foi levantada uma questão: os hamsters que o casal criava ficariam com quem? Eram duas fêmeas, mãe e filha, a Tetéia e a Belinha. Felizmente não houve maiores desavenças, ambos concordaram que cada um ficaria com uma. Ao meu cliente — que concordou com a exposição no blog da experiência vivida por ele — coube a Belinha (foto). E foi o acordo quanto ao destino dos animais que quebrou a tensão da audiência. Até a juíza Maria Aglae Tedesco Vilardo viu graça na história e confessou: “Em tantos anos de magistratura, essa é a primeira vez que partilho hamsters.”
Problema maior haveria na ausência de acordo entre as partes, pois a questão ainda não está regulada pelo Direito brasileiro, pelo menos, não ainda. De acordo com Época, “um projeto de lei do deputado federal Márcio França (PSB-SP) estabelece uma nova regra para essa situação. O Brasil não tem uma legislação específica sobre o assunto. As decisões dos tribunais têm adotado a mesma linha de raciocínio da lei dos Estados Unidos. Lá os animais de estimação são considerados propriedade. Ficam com quem os comprou — ou quem tem o nome no pedigree. Essa jurisprudência tem ditado as decisões nos casos que chegam aos tribunais. Quem tinha amor ao cão que pertencia ao ex-amor acabava ficando num mato sem cachorro, sem a lei ao seu lado. Pelo projeto de lei proposto agora no Brasil, a propriedade é um dos fatores a ser pesado, mas não o único.”
No caso de Belinha e Tetéia, a questão da propriedade não ajudaria muito, caso não tivesse havido acordo. Até onde entendo, hamsters não têm pedigree e o valor de mercado não ultrapassa R$ 10 cada. E mesmo assim, a Belinha sequer foi comprada: nasceu da Tetéia.
Voltando à reportagem: “A legislação proposta estabelece que, caso provocada, a Justiça deve decidir por aquele que tem mais condições para ficar com o animal e mais vínculo com ele. O projeto tramita na Câmara em caráter conclusivo. Isso significa que não precisa ir a plenário, basta que passe nas comissões internas. Projetos que não revogam leis existentes ou que são considerados sem importância para ir a plenário são aprovados sem votação. Não há prazo para isso acontecer.”
O último parágrafo da reportagem, assinada por Nelito Fernandes, traz um questionamento razoável: “Ainda que deixe margem a algumas dúvidas, a jurisprudência atual tem uma regra clara, que é a propriedade. O projeto de lei conta com algo bastante subjetivo: como definir quem tem mais afeto e condições de cuidar do animal?”
No meu entendimento, questões que envolvem sentimentos, ainda que por um animal de estimação, merecem, sim, uma avaliação de acordo com cada caso. Nem sempre quem pagou pelo animal é quem nutre maior carinho pelo bicho. Está acertada a idéia do deputado Márcio França.
retirado do blog http://fmanha.com.br/blogs
sexta-feira, 5 de novembro de 2010
Avô paterno não é responsável por pensão de netos menores, decide TJ/AL
A Segunda Câmara Cível do Tribunal de Justiça de Alagoas (TJ/AL), durante sessão na última quinta-feira (04), deu provimento ao agravo de instrumento interposto pelo avô de dois menores, dispensando-o do pagamento de um salário mínimo e meio a título de alimentos. O julgamento da Câmara confirmou uma decisão monocrática datada de setembro deste ano, que suspendeu a sentença de 1º grau.
O agravo de instrumento com pedido de efeito suspensivo foi interposto contra decisão do juiz da 26ª Vara Cível da Capital - Família, que fixou alimentos provisórios em favor dos netos de A L. Da S., representados por sua mãe, na ordem de um salário mínimo e meio a ser descontado dos seus proventos.
Em suas razões, o avô dos menores afirma que a fixação de alimentos em um salário mínimo e meio, mensalmente, coloca-o em situação delicada, uma vez que ele não teria condições materiais de cumprir a obrigação que lhe foi imposta. O avô ainda alega que a responsabilidade alimentícia dos avós para com os netos deve ser encarada como medida excepcional, complementar ou sucessiva dos pais, mas nunca solidária. A diluição do valor entre os demais avós também é hipótese considerada pelo autor do recurso.
Para o desembargador Alcides Gusmão da Silva, relator do processo, a obrigação alimentar dos avós possui natureza subsidiária e complementar, somente se justificando nas hipóteses em que estiver comprovada a ausência ou incapacidade alimentar dos genitores. De acordo com informações da mãe, o pai dos menores abandonou a família sem dar qualquer notícia sobre seu paradeiro. A defesa notificou que o pai encontrava-se recolhido no sistema prisional, condenado criminalmente, e que essa situação era de conhecimento da mãe dos menores, que teria ficado grávida quando o mesmo já estava encarcerado.
"Na verdade, nos moldes em que os fatos sucederam, denota-se a ocorrência de inversão procedimental, cujos efeitos se irradiaram contra quem ainda, pelo menos em princípio, não detinha qualquer responsabilidade alimentar", explica o desembargador Alcides Gusmão, ao concluir que não há como a relatoria votar pela não concessão do efeito suspensivo da decisão de 1º grau.
retirado do site do IBDFAM
O agravo de instrumento com pedido de efeito suspensivo foi interposto contra decisão do juiz da 26ª Vara Cível da Capital - Família, que fixou alimentos provisórios em favor dos netos de A L. Da S., representados por sua mãe, na ordem de um salário mínimo e meio a ser descontado dos seus proventos.
Em suas razões, o avô dos menores afirma que a fixação de alimentos em um salário mínimo e meio, mensalmente, coloca-o em situação delicada, uma vez que ele não teria condições materiais de cumprir a obrigação que lhe foi imposta. O avô ainda alega que a responsabilidade alimentícia dos avós para com os netos deve ser encarada como medida excepcional, complementar ou sucessiva dos pais, mas nunca solidária. A diluição do valor entre os demais avós também é hipótese considerada pelo autor do recurso.
Para o desembargador Alcides Gusmão da Silva, relator do processo, a obrigação alimentar dos avós possui natureza subsidiária e complementar, somente se justificando nas hipóteses em que estiver comprovada a ausência ou incapacidade alimentar dos genitores. De acordo com informações da mãe, o pai dos menores abandonou a família sem dar qualquer notícia sobre seu paradeiro. A defesa notificou que o pai encontrava-se recolhido no sistema prisional, condenado criminalmente, e que essa situação era de conhecimento da mãe dos menores, que teria ficado grávida quando o mesmo já estava encarcerado.
"Na verdade, nos moldes em que os fatos sucederam, denota-se a ocorrência de inversão procedimental, cujos efeitos se irradiaram contra quem ainda, pelo menos em princípio, não detinha qualquer responsabilidade alimentar", explica o desembargador Alcides Gusmão, ao concluir que não há como a relatoria votar pela não concessão do efeito suspensivo da decisão de 1º grau.
retirado do site do IBDFAM
Falta de citação de herdeiro autoriza rescisão de ação de paternidade
O Superior Tribunal de Justiça (STJ) decretou a rescisão de uma sentença proferida em ação de paternidade na qual não fora citado um herdeiro do suposto pai, já morto. Ao julgar o caso, ocorrido em Minas Gerais, a Terceira Turma do STJ decidiu que, nessas situações, a ação de reconhecimento de paternidade deve ser proposta necessariamente contra todos os herdeiros do falecido, e que a ação rescisória é um meio válido para desconstituir sentença homologatória de acordo que já transitou em julgado.
A ação original foi movida contra os pais do falecido por um menor, assistido por sua mãe. Os avós não se opuseram ao reconhecimento da paternidade. A Justiça de primeira instância homologou o acordo entre os avós e o neto, embora um outro filho do falecido, igualmente menor, não houvesse tomado parte no processo, pois nem chegou a ser citado. Posteriormente, esse outro filho, representado também pela mãe, entrou com ação rescisória no Tribunal de Justiça de Minas Gerais. Diante da negativa de atendimento, recorreu ao STJ.
Segundo a relatora do caso no STJ, ministra Nancy Andrighi, a sentença que homologou o acordo na ação de paternidade afetou a situação jurídica do outro filho, motivo por que ele deveria ter sido citado como litisconsorte necessário, por exigência expressa do Código Civil de 1916, vigente à época do processo. Além disso, para a ministra, a falta de citação impediu o interessado de exercer os direitos constitucionais do contraditório e da ampla defesa.
Conforme comentou em seu voto, o filho deixado de fora do processo tem duplo interesse na solução do caso: um de ordem moral, por não desejar a atribuição de prole alheia ao seu falecido pai, e outro de ordem econômica, relativo à herança.
“O reconhecimento da paternidade, portanto, jamais poderia ter ocorrido sem manifestação do herdeiro do falecido”, afirmou a ministra, acrescentando que esse reconhecimento não cria apenas laços afetivos entre os irmãos, mas também “consequências jurídicas diversas, especialmente no que se refere aos direitos sucessórios das partes”. Em consequência, declarou a relatora, se o suposto pai já faleceu, a ação investigatória de paternidade “deve necessariamente ser proposta contra todos os herdeiros”.
De acordo com a ministra, a citação de todos os litisconsortes necessários é “um pressuposto de existência da relação processual”, razão pela qual a ausência do herdeiro no processo de investigação de paternidade tem como consequência jurídica “a impossibilidade de que lhe sejam estendidos os efeitos da decisão, pois ele não integrou a lide”.
Quanto ao meio utilizado para invalidar a decisão judicial em que não houve citação de litisconsorte passivo necessário, a relatora reconheceu que, na opinião de muitos juristas, o correto seria utilizar a ação anulatória, em vez da ação rescisória. No entanto, ela criticou o formalismo processual excessivo e disse que “qualquer via é adequada para insurgência contra o vício verificado na presente hipótese”.
Para a ministra Nancy Andrighi, nulidades processuais desse tipo devem ser reconhecidas pela Justiça mesmo que não apontadas por nenhuma das partes envolvidas no processo e independentemente de procedimentos especiais.
retirado do site do STJ
A ação original foi movida contra os pais do falecido por um menor, assistido por sua mãe. Os avós não se opuseram ao reconhecimento da paternidade. A Justiça de primeira instância homologou o acordo entre os avós e o neto, embora um outro filho do falecido, igualmente menor, não houvesse tomado parte no processo, pois nem chegou a ser citado. Posteriormente, esse outro filho, representado também pela mãe, entrou com ação rescisória no Tribunal de Justiça de Minas Gerais. Diante da negativa de atendimento, recorreu ao STJ.
Segundo a relatora do caso no STJ, ministra Nancy Andrighi, a sentença que homologou o acordo na ação de paternidade afetou a situação jurídica do outro filho, motivo por que ele deveria ter sido citado como litisconsorte necessário, por exigência expressa do Código Civil de 1916, vigente à época do processo. Além disso, para a ministra, a falta de citação impediu o interessado de exercer os direitos constitucionais do contraditório e da ampla defesa.
Conforme comentou em seu voto, o filho deixado de fora do processo tem duplo interesse na solução do caso: um de ordem moral, por não desejar a atribuição de prole alheia ao seu falecido pai, e outro de ordem econômica, relativo à herança.
“O reconhecimento da paternidade, portanto, jamais poderia ter ocorrido sem manifestação do herdeiro do falecido”, afirmou a ministra, acrescentando que esse reconhecimento não cria apenas laços afetivos entre os irmãos, mas também “consequências jurídicas diversas, especialmente no que se refere aos direitos sucessórios das partes”. Em consequência, declarou a relatora, se o suposto pai já faleceu, a ação investigatória de paternidade “deve necessariamente ser proposta contra todos os herdeiros”.
De acordo com a ministra, a citação de todos os litisconsortes necessários é “um pressuposto de existência da relação processual”, razão pela qual a ausência do herdeiro no processo de investigação de paternidade tem como consequência jurídica “a impossibilidade de que lhe sejam estendidos os efeitos da decisão, pois ele não integrou a lide”.
Quanto ao meio utilizado para invalidar a decisão judicial em que não houve citação de litisconsorte passivo necessário, a relatora reconheceu que, na opinião de muitos juristas, o correto seria utilizar a ação anulatória, em vez da ação rescisória. No entanto, ela criticou o formalismo processual excessivo e disse que “qualquer via é adequada para insurgência contra o vício verificado na presente hipótese”.
Para a ministra Nancy Andrighi, nulidades processuais desse tipo devem ser reconhecidas pela Justiça mesmo que não apontadas por nenhuma das partes envolvidas no processo e independentemente de procedimentos especiais.
retirado do site do STJ
Suposto pai não pode ser preso por deixar de pagar alimentos provisórios antes da sentença
Homem que foi preso por não pagar pensão alimentícia provisória, apesar de ainda não ter sido reconhecida a paternidade, deve ser solto. Por unanimidade, a Quarta Turma do Superior Tribunal de Justiça (STJ) concedeu habeas corpus, reformando decisão do Tribunal de Justiça do Rio de Janeiro (TJRJ) que negou o pedido de liberdade.
A 3ª Vara de Família da Comarca de São Gonçalo (RJ), ao decretar a prisão, pelo prazo de três meses, afirmou que o executado não apresentou nenhuma proposta de acordo para parcelamento da dívida e entendeu que ele poderia atrasar ainda mais os pagamentos, da mesma forma que estava atrasando os autos da investigação de paternidade. O recorrente entrou com pedido de habeas corpus no tribunal de Justiça carioca, que seguiu o entendimento da primeira instância.
No recurso, o recorrente informou que entrou com uma ação para revisão da pensão alimentícia com pedido de antecipação de tutela, para a imediata suspensão das cobranças das prestações vencidas e das que estavam por vencer, até que se comprovasse a sua paternidade.
Ele alega que não teve o direito de propor conciliação e que tanto a doutrina como a jurisprudência e a legislação não admitem a fixação de alimentos provisórios em ação de investigação de paternidade, já que os alimentos só são devidos após a sentença que reconhece o estado de filiação. Afirma também que o exame de DNA só não foi realizado porque a alimentada não compareceu ao laboratório, sem apresentar qualquer justificativa.
O relator do recurso, ministro Raul Araújo, destacou que o habeas corpus não é o meio adequado para se discutir a obrigação de prestar alimentos em si, mas apenas para se analisar a legalidade do constrangimento à liberdade de ir e vir do paciente.
O ministro afirmou que tanto o artigo 7º da Lei nº 8.520/1992 como o artigo 5º da Lei nº 883/1949 nada dispõem sobre a fixação de alimentos provisionais quando ainda não há reconhecimento judicial da paternidade; eles tratam expressamente da possibilidade quando já proferida sentença que reconheça a paternidade.
O relator considerou que não é pacífica a questão relativa à possibilidade de fixação de alimentos provisionais em ação de investigação de paternidade antes do decreto sentencial. Para ele, a prisão não deve ser considerada uma medida razoável pelo descumprimento de uma decisão cuja legalidade é questionável.
retirado do site do STJ
A 3ª Vara de Família da Comarca de São Gonçalo (RJ), ao decretar a prisão, pelo prazo de três meses, afirmou que o executado não apresentou nenhuma proposta de acordo para parcelamento da dívida e entendeu que ele poderia atrasar ainda mais os pagamentos, da mesma forma que estava atrasando os autos da investigação de paternidade. O recorrente entrou com pedido de habeas corpus no tribunal de Justiça carioca, que seguiu o entendimento da primeira instância.
No recurso, o recorrente informou que entrou com uma ação para revisão da pensão alimentícia com pedido de antecipação de tutela, para a imediata suspensão das cobranças das prestações vencidas e das que estavam por vencer, até que se comprovasse a sua paternidade.
Ele alega que não teve o direito de propor conciliação e que tanto a doutrina como a jurisprudência e a legislação não admitem a fixação de alimentos provisórios em ação de investigação de paternidade, já que os alimentos só são devidos após a sentença que reconhece o estado de filiação. Afirma também que o exame de DNA só não foi realizado porque a alimentada não compareceu ao laboratório, sem apresentar qualquer justificativa.
O relator do recurso, ministro Raul Araújo, destacou que o habeas corpus não é o meio adequado para se discutir a obrigação de prestar alimentos em si, mas apenas para se analisar a legalidade do constrangimento à liberdade de ir e vir do paciente.
O ministro afirmou que tanto o artigo 7º da Lei nº 8.520/1992 como o artigo 5º da Lei nº 883/1949 nada dispõem sobre a fixação de alimentos provisionais quando ainda não há reconhecimento judicial da paternidade; eles tratam expressamente da possibilidade quando já proferida sentença que reconheça a paternidade.
O relator considerou que não é pacífica a questão relativa à possibilidade de fixação de alimentos provisionais em ação de investigação de paternidade antes do decreto sentencial. Para ele, a prisão não deve ser considerada uma medida razoável pelo descumprimento de uma decisão cuja legalidade é questionável.
retirado do site do STJ
domingo, 31 de outubro de 2010
Violência doméstica e natureza jurídica das medidas protetivas de urgência
Autor: Júlia Maria Seixas Bechara
I- Introdução
A previsão de medidas protetivas de urgência na Lei 11.340, de 7 de agosto de 2006, é apontada como um dos maiores avanços no combate à violência doméstica e familiar contra a mulher no Brasil.
Afastamento do agressor do lar, proibição de contato e aproximação com a vítima, suspensão de visitas aos dependentes e prestação de alimentos provisionais são exemplos das disposições trazidas nos artigos 22, 23 e 24 da referida lei.
Quando bem contextualizadas, as medidas de proteção traduzem providência de utilidade insubstituível, na medida em que garantem o amparo da mulher, presumidamente hipossuficiente, em equilíbrio com direitos essenciais do apontado agressor, em especial a liberdade.
A despeito de sua importância, desde a promulgação da chamada Lei Maria da Penha, pouco se debateu acerca da natureza jurídica das medidas protetivas de urgência por ela disponibilizadas.
Entretanto, a determinação da natureza jurídica de um instituto, mais do que mero exercício teórico de categorização, implica opção por padrões de procedimentos pré-definidos, cuja repercussão prática justifica e demanda a perquirição.
A incompreensível lacuna doutrinária tem gerado decisões judiciais de múltiplos e incompatíveis sentidos, inexistindo uniformização sequer entre julgados de um mesmo tribunal.
Por conseguinte, restam indefinidas questões como a duração das medidas de proteção, a perda de eficácia pelo não ajuizamento de ação principal, o recurso cabível contra a decisão que aprecia sua aplicação, a competência para conhecimento do recurso e as conseqüências do descumprimento da ordem.
Nesse sentido, as protetivas seriam medidas de caráter cautelar, demandando ajuizamento de processo principal? O processo principal seria cível ou criminal? O não ajuizamento do principal implicaria cessação da eficácia da ordem cautelar? Ou estas guardariam caráter satisfativo, dispensando qualquer outro instrumento? Qual o procedimento a ser seguido? Contra a decisão que aprecia o pedido, seria cabível o agravo de instrumento, o recurso em sentido estrito, a apelação ou o habeas corpus? Qual a turma competente para conhecimento do recurso ou da ação autônoma, a cível ou a criminal? A prisão preventiva seria instrumento idôneo para garantia de sua execução?
Essas e tantas outras questões podem ser respondidas somente quando se pressupõe a natureza jurídica da medida protetiva, o que se passa a analisar.
II. Posicionamento doutrinário
De modo geral, a doutrina, mesmo sem se deter especificamente no tema da natureza jurídica, trata a protetiva como medida cautelar, atribuindo a algumas delas caráter cível e a outras caráter penal.
Representativas desse posicionamento majoritário são as explanações de Maria Berenice Dias: "Encaminhado pela autoridade policial pedido de concessão de medida protetiva de urgência - quer de natureza criminal, quer de caráter cível ou familiar - o expediente é autuado como medida protetiva de urgência, ou expressão similar que permita identificar a sua origem. (...) Não se está diante de processo crime e o Código de Processo Civil tem aplicação subsidiária (art. 13). Ainda que o pedido tenha sido formulado perante a autoridade policial, devem ser minimamente atendidos os pressupostos das medidas cautelares do processo civil, ou seja, podem ser deferidas 'inaudita altera pars' ou após audiência de justificação e não prescindem da prova do 'fumus boni juris' e 'periculum in mora".
Igualmente, Denílson Feitoza: "Assim, firmamos um primeiro ponto: há procedimentos cíveis e criminais separados, conduzidos por juízes com competência cumulativa, cível e criminal, quanto à matéria violência doméstica e familiar contra a mulher. As medidas protetivas, por sua vez, são, conforme o caso, medidas cautelares preparatórias, preventivas ou incidentes, como constatamos por suas características e por interpretação sistemática com outras leis. A mudança de denominação ("protetivas") não lhes retirou seu caráter. Por outro lado, há várias medidas protetivas, na Lei 11.340/2006, que têm, de modo geral, caráter dúplice, podendo ser utilizadas como medidas cautelares cíveis ou criminais (...)".
Segundo o autor, ostentariam caráter penal as medidas do artigo 22, incisos I, II, III, alíneas "a", "b" e "c". Já as medidas do artigo 22, incisos IV e V, artigo 23, incisos III e IV, e artigo 24, incisos II, III e IV, teriam caráter cível. Ainda, guardariam caráter administrativo as disposições do artigo 23, incisos I e II, e artigo 24, inciso I.
Por fim, destaca-se igual entendimento de Rogério Sanches Cunha e Ronaldo Batista Pinho, que, em capítulo denominado "cautelaridade", asseveram: "Como tal, devem preencher os dois pressupostos tradicionalmente apontados pela doutrina, para concessão das medida cautelares, consistentes no perciculum in mora (perigo da demora) e fumus bonis iuris (aparência do bom direito)". Adiante, complementam apontando a duplicidade de sua natureza: "Ocorre que várias dessas medidas possuem, inequivocamente, caráter civil".
III. Posicionamento jurisprudencial
A jurisprudência tem se mostrado vacilante. Com perplexidade, constatam-se posicionamentos diametralmente opostos dentro de um mesmo Tribunal de Justiça.
À míngua de deliberação do Superior Tribunal de Justiça ou do Supremo Tribunal Federal, divergem as cortes acerca do recurso cabível e da turma competente para apreciá-lo.
Em louváveis, porém estranhas tentativas de apaziguamento da dissensão, chega-se a conhecer agravo de instrumento como recurso em sentido estrito, admitir-se a fungibilidade entre apelação cível e criminal[5], ou ainda conceder-se habeas corpus de ofício no bojo de agravo de instrumento.
Ilustrativas da divergência, que se repete em igual gravidade em outras cortes brasileiras, destacam-se as seguintes decisões do Tribunal de Justiça do Distrito Federal e Territórios:
PROCESSUAL - CONFLITO NEGATIVO DE COMPETÊNCIA - RECURSO INTERPOSTO CONTRA DECISÃO PROFERIDA POR JUIZ CRIMINAL COM FUNDAMENTO NA LEI MARIA DA PENHA - COMPETÊNCIA DA TURMA CRIMINAL.1. O julgamento de recurso interposto contra decisão proferida em processo de medida cautelar submetida à jurisdição de Juizado Especial Criminal e de Violência Doméstica Familiar contra a Mulher, consubstanciada em medidas protetivas, é da competência de Turma Criminal. 2. Conflito julgado procedente, declarando-se competente a 2ª Turma Criminal. Unânime. (20080020137058CCP, Relator ESTEVAM MAIA, Conselho Especial, julgado em 11/11/2008, DJ 28/01/2009 p. 47)
PENAL E PROCESSUAL PENAL. AMEAÇA. VIOLÊNCIA DOMÉSTICA. PRELIMINAR: APELO INTERPOSTO COM APOIO NAS REGRAS DO PROCESSO CIVIL. ADMISSIBILIDADE, EM FACE DE ERRO JUSTIFICÁVEL CAUSADO PELO PRÓPRIO SENTENCIANTE. MÉRITO: CONCESSÃO DE MEDIDA PROTETIVA DE AFASTAMENTO DO LAR CONJUGAL. AUSÊNCIA DE FUNDAMENTAÇÃO. PRINCÍPIOS DO CONTRADITÓRIO E DA AMPLA DEFESA. NÃO OBSERVÂNCIA. NULIDADE. 1.Apesar da natureza penal da decisão resistida, o recurso de apelo, interposto de acordo com as regras processuais civis, não pode ser considerado intempestivo se o próprio julgador que proferiu a sentença resolveu o feito com base no art. 269, inciso I, do Código de Processo Civil, levando o apelante, portanto, a erro justificável (...) 3. Apelo conhecido e provido. (20060111217028APR, Relator ARNOLDO CAMANHO DE ASSIS, 2ª Turma Criminal, julgado em 02/04/2009, DJ 24/06/2009 p. 247)
AGRAVO DE INSTRUMENTO - NÃO CONHECIMENTO - HABEAS CORPUS - CONCESSÃO DE OFÍCIO - POSSIBILIDADE - LEI MARIA DA PENHA - MEDIDAS PROTETIVAS - MODULAÇÃO DE INTENSIDADE - ORDEM PARCIALMENTE MODIFICADA 1) - Não se conhece, em Turma Criminal, de agravo de instrumento, que é recurso cível, previsto no artigo 522 do CPC, sendo competente para dele conhecer Turma Criminal (sic), nos precisos termos do artigo 18, I, do Regimento Interno desta Casa. 2) - Possível conceder-se, de ofício, Habeas Corpus, nos exatos termos do §2º, do artigo 644, do CPP (...). 3) - Agravo de instrumento não conhecido. Habeas Corpus concedido de ofício, parcialmente. (20100020000138AGI, Relator LUCIANO MOREIRA VASCONCELLOS, 1ª Turma Criminal, julgado em 18/02/2010, DJ 19/03/2010 p. 124)
PROCESSUAL PENAL. APELAÇÃO DO MINISTÉRIO PÚBLICO. VIOLÊNCIA DOMÉSTICA E FAMILIAR CONTRA A MULHER. INDEFERIMENTO DAS MEDIDAS PROTETIVAS DE NATUREZA CÍVEL. RECURSO PRÓPRIO. NÃO CONHECIMENTO. 1 As medidas protetivas de natureza cível e o processo criminal são absolutamente independentes e desafiam deslinde específico, sendo que o indeferimento daquelas desafia recurso próprio na esfera cível, mais especificamente o de agravo de instrumento, tornando-se inadmissível o manejo de apelação criminal. Afasta-se a competência da Turma Criminal em favor da Turma Cível. 2 Remessa dos autos à uma das Turmas Cíveis, competente para conhecer da matéria questionada. (20070810005359APR, Relator GEORGE LOPES LEITE, 1ª Turma Criminal, julgado em 12/06/2008, DJ 09/07/2008 p. 95)
VIOLÊNCIA DOMÉSTICA - AMEAÇA - INDEFERIMENTO DE MEDIDAS PROTETIVAS - NATUREZA CÍVEL - INCOMPETÊNCIA DA TURMA CRIMINAL. I. As cautelas relacionadas no art. 22, incisos II e III, alíneas "a" e "b" da Lei 11.340/06 possuem natureza cível. O recurso interposto pelo indeferimento das medidas refoge à competência da Turma Criminal. II. Recurso não conhecido. Determinada a remessa a uma das Turmas Cíveis. (20090210046414APR, Relator SANDRA DE SANTIS, 1ª Turma Criminal, julgado em 05/07/2010, DJ 29/07/2010 p. 265)
IV. Crítica à ambivalência
Pressupondo-se que os julgadores encontram boa parte dos fundamentos de suas decisões na doutrina, de uma breve análise do apanhado de jurisprudência retro, observa-se que o atual posicionamento daquela tem gerado alarmantes divergências.
Tal resultado advém do tratamento ambivalente atribuído às medidas de urgência, oscilante entre regras de direito material e processual incompatíveis entre si.
Se por um lado a afirmação de que algumas protetivas ostentam caráter penal enquanto outras ostentam caráter cível procura sanar a omissão - se não a atecnia - legislativa, por outro fere a homogeneidade necessária à resolução segura de conflitos.
O cenário se torna caótico quando se verifica a inexistência de consenso entre os operadores sequer sobre quais seriam as medidas cíveis e quais seriam as criminais.
Por conseguinte, imagine-se, por exemplo, o deferimento, em uma mesma decisão, de duas medidas protetivas, sendo uma considerada cível e a outra penal. Desejando recorrer, o apontado autor do fato deveria, seguindo a orientação acima, manejar dois recursos, sendo um dirigido à turma cível e o outro à turma criminal, no que encontraria óbice no princípio da unirrecorribilidade.
Ainda no mesmo exemplo, caso desobedecidas as ordens, a execução forçada da medida cível seguiria o rito do cumprimento de obrigação de fazer do Código de Processo Civil, ao passo que a medida criminal poderia ser assegurada pela prisão preventiva.
Parece pouco razoável admitir-se a ocorrência cotidiana de tais complicações.
Ainda que se vislumbrem traços de caráter cível e traços de caráter penal, a boa técnica, pautada nos princípios da igualdade, da celeridade e da segurança - e, por que não dizer, no bom senso - impõe que se atribua natureza jurídica única a todas as medidas protetivas, tendo como vértice as mais elementares definições do direito, como se verá a seguir.
V. Método de definição da natureza jurídica
O que determina a natureza jurídica de um instituto é sua relação com o objeto da disciplina paradigma.
Para a enunciação do caráter da medida protetiva de urgência, portanto, basta que essa seja confrontada com as definições de direito penal e direito civil.
Nesse sentido, sabe-se que o direito penal é o conjunto de normas editadas pelo Estado definindo crimes e contravenções, isto é, impondo ou proibindo determinadas condutas sob a ameaça de sanção ou medida de segurança.
Por sua vez, o processo penal deve conferir efetividade ao direito penal, fornecendo os meios para materializar a aplicação da pena ao caso concreto.
Já o direito civil é o ramo que regula as relações entre os indivíduos nos seus conflitos de interesses, ao passo que o processo civil consiste no sistema de princípios e normas aplicado à solução de conflitos em matéria não-penal.
Portanto, em linhas gerais, se um instituto diz respeito à definição de delitos ou, de algum modo, à aplicação de sanção em razão de seu cometimento, ostenta caráter penal. De outro lado, se limita-se a reger as relações entre particulares em conflito, ostenta caráter civil.
Isso posto, sabendo-se que as medidas protetivas nada mais são do que providências judiciais com vistas a garantir a integridade física ou psíquica da vítima em situação de violência doméstica em face do suposto agressor, a conclusão por sua natureza jurídica cível deflui naturalmente.
VI. Crítica à natureza penal
Consoante acima exposto, doutrina e jurisprudência majoritárias apontam que muitas das medidas protetivas elencadas na Lei Maria da Penha ostentam caráter penal.
Todavia, para tanto, deveriam dizer respeito à descrição de delitos ou à aplicação de sanção por seu cometimento, o que não ocorre em absoluto. Os artigos 22, 23 e 24 do referido diploma legal, ao mesmo tempo em que não definem crimes ou contravenções, tampouco estabelecem procedimentos de repercussão no processo penal, que, se houver, tramitará em autos apartados.
A finalidade da medida de proteção, como visto, é garantir a integridade da mulher vítima de violência pelo suposto agressor, em nítida disciplina de conflito de interesses.
É fato que, no mais das vezes, as medidas se fazem necessárias porque foi a mulher vítima de delito.
Tal situação, entretanto, não tem o condão de transmudar o caráter da ordem, sob pena de injustificada imiscuição das diferentes esferas, sendo inquestionável que um único fato possa gerar conseqüências em mais de um âmbito jurídico.
A mesma situação existe, por exemplo, com o possuidor esbulhado. Ora, ainda que a invasão de terreno ou edifício alheio constitua crime previsto no artigo 161, parágrafo 1º, inciso II, do Código Penal, a ordem de reintegração de posse obtida em ação possessória nem por isso ostenta caráter penal.
Poder-se-ia argumentar, ainda, que a natureza criminal seria sinalizada pela possibilidade de formulação do pedido por intermédio da autoridade policial, cuja atribuição se circunscreveria ao âmbito penal.
Todavia, o artigo 12, inciso III, da lei em comento, é expresso em determinar a autuação do expediente da medida protetiva em apartado ao inquérito ou ao termo circunstanciado. Uma vez remetido o pleito ao Judiciário, esgota-se a função do delegado de polícia.
Cuida-se, pois, de mecanismo de aceleração da postulação da protetiva, na medida em que permite à ofendida formular o pedido sem o trâmite necessário, e por vezes moroso, à obtenção de assistência de advogado ou ao contato com órgão do Ministério Público, tudo nos termos dos artigos 19 e 27 do mesmo diploma legal.
Ademais, a atribuição de natureza penal teria o condão de vincular a medida protetiva ao processo criminal, do que decorreriam consequências preocupantes.
Nesse sentido, uma vez retratada a representação nos crimes de ação penal condicionada, seja por desinteresse na punição do autor, seja para evitar-se o constrangimento da vitimização secundária advinda dos sucessivos atos processuais, a vítima ver-se-ia desprovida da proteção desejada.
De outro lado, não seria incomum a manutenção da representação apenas como forma de garantir-se a vigência das protetivas, em evidente desvio de finalidade do processo-crime.
Por tais razões, parece pouco razoável que se sustente o caráter criminal das medidas protetivas de urgência.
VII. Natureza cível
Por regularem as relações entre vítima e agressor em conflito de interesses, ostentam as medidas protetivas de urgência natureza cível.
A conclusão se reforça pela análise do texto legal.
Em diversas passagens, a Lei 11.340/2006 se refere aos procedimentos de natureza cível. Assim, assumida a natureza penal das medidas, muitos dos dispositivos legais seriam completamente esvaziados.
Com efeito, o artigo 13 é expresso em determinar a aplicação do Código de Processo Civil aos processos cíveis decorrentes de violência doméstica.
Por sua vez, os artigos 14 e 33 mencionam a competência cível dos juizados especializados.
Já o artigo 15 define o juízo competente para apreciação das ações cíveis de igual origem, permitindo à vítima optar por sua distribuição no juizado de seu domicílio, do domicílio do agressor ou do local do fato em que se baseou a demanda. Note-se, nesse ponto, a diferença das regras de definição de competência estabelecidas no Código de Processo Penal, que, a princípio, determinam a apreciação do feito no lugar em que se consumar a infração.
Ainda, o artigo 25 ordena a intervenção do Ministério Público nas causas cíveis de igual origem, bem como o artigo 27 a assistência de advogado nesses atos processuais.
Ora, ostentando as protetivas caráter criminal, tais dispositivos perderiam aplicabilidade, não parecendo ser essa, por óbvio, a intenção do legislador.
Isso posto, cumpre analisar as consequências advindas da definição ora adotada.
VIII. Procedimento
O procedimento aplicável às medidas protetivas é o definido nos artigos 18 e 19 da Lei Maria da Penha, bem como, parece-nos, os relativos ao processo de conhecimento do Código de Processo Civil.
Assim, recebido o expediente, o juiz deve conhecê-lo e decidi-lo no prazo de 48 horas.
Verificada a verossimilhança das alegações e havendo fundado receio de dano irreparável ou de difícil reparação, deferirá o pleito em antecipação de tutela, nos termos do artigo 273 do Código de Processo Civil.
Da decisão cabe agravo de instrumento, conforme artigo 522 do mesmo diploma legal.
O feito deve seguir trâmite regular, instaurando-se o contraditório e produzindo-se prova em audiência, se necessário.
Após, deve ser julgado mediante sentença proferida nos termos dos artigos 267 e 269 do Código de Processo Civil. Eventual recurso será a apelação, dirigida à turma cível do Tribunal de Justiça.
A ordem comporta execução - provisória ou definitiva - em caso de descumprimento. Para tanto, o artigo 22, § 4º, da lei em comento, estabelece como mecanismo de coerção o sistema de cumprimento de obrigações de fazer e não fazer previsto no artigo 461 do Código de Processo Civil. Com isso, possibilita a efetivação da tutela mediante imposição, por exemplo, de multa diária, providência, aliás, ainda sem previsão dentro da atual sistemática processual penal.
IX. Crítica à cautelaridade
Doutrina e jurisprudência, conforme exposição retro, são uníssonas em cuidar das protetivas como medidas cautelares.
Por definição, medidas cautelares são tutelas de urgência com as quais se busca evitar que a decisão da causa, ao ser obtida, não mais satisfaça o direito invocado.
Nessa lógica, deveriam as medidas protetivas obedecer aos requisitos mínimos de instrumentalidade, de temporariedade e de não-satisfatividade. Entretanto, por serem tais características incompatíveis com sua finalidade, não há como sustentar-se tal tese.
Com efeito, como cautelar, a protetiva deveria fazer referência a um processo principal, conforme artigo 796 do Código de Processo Civil. Para alguns, é possível que se entenda que o principal é o processo criminal. Todavia, essa vinculação traria os inconvenientes acima apontados, em especial a desproteção da mulher em caso de retratação da representação, ou a manutenção dessa para garantia de vigência da ordem. Ademais, não se pode admitir que medida de natureza cível vincule-se a processo principal de caráter criminal.
Para outros, então, principal seria o processo a ser ajuizado na vara de família, como o de divórcio, o de reconhecimento e dissolução de união estável, o de alimentos. Ainda que tal entendimento seja compatível com a natureza cível da protetiva, é certo que essa não guarda o traço da referibilidade àquelas demandas. A proibição de contato do ofensor com a vítima não seria instrumento de sucesso da ação de alimentos, para se dar um exemplo. No mais, há casos em que vítima e ofensor não têm pendências judiciais a serem resolvidas, como na violência entre irmão e irmã ou entre namorados.
Outro problema diz com o prazo de cessação da eficácia da tutela, nos termos do artigo 808 do referido diploma legal. Assim, uma vez deferida a protetiva, a vítima teria o lapso de trinta dias para ajuizamento do processo principal, sob pena de perda da eficácia da ordem.
Tal conseqüência, por demais gravosa, vai de encontro à razão de existência das próprias medidas protetivas. Se, de um lado, se constatam dificuldades para o ajuizamento das demandas, como o acesso à célere assistência jurídica, a obtenção de documentos necessários à propositura da ação ou mesmo a instabilidade emocional, de outro lado é possível que sequer exista a necessidade de outro feito, como mencionado anteriormente.
De tal modo, a exigência de futura propositura de ação significaria nova desproteção à vítima, em atendimento a formalismo incompatível com o mecanismo de solicitação da ordem.
Isso posto, conclui-se que a medida protetiva, porque autônoma e satisfativa, não é tutela de natureza cautelar, mas sim tutela inibitória.
Com efeito, ao entregar à vítima o direito material invocado - consistente em sua proteção perante o suposto agressor - dispensa a medida protetiva qualquer outro procedimento, produzindo efeitos enquanto existir a situação de perigo que embasou a ordem (rebus sic stantibus).
A circunstância de a demanda ser fundada em perigo e baseada em cognição sumária - na fase de antecipação de tutela da protetiva - não implica, necessariamente, a caracterização da medida como cautelar.
Cuidando de tal diferenciação, esclarece Luiz Guilherme Marinoni que "a mais importante das tutelas jurisdicionais a serviço da integridade do direito material é a tutela inibitória, destinada a proteger o direito contra a possibilidade de sua violação. Para ser mais preciso, a tutela inibitória é voltada a impedir a prática de ato contrário ao direito, assim como a sua repetição, ou ainda, continuação. Se a cautelar serve para assegurar a tutela do direito, pra prevenir a violação do direito não é necessária uma tutela de segurança, mas apenas a tutela devida ao direito ameaçado de violação, ou seja, a tutela inibitória".
Portanto, uma vez deferida a ordem, porque demonstrada a probabilidade de violação do direito, para sua vigência é suficiente que permaneça a situação de perigo que a lastreou, não havendo que se falar em ajuizamento de processo principal.
X. Prisão civil
A Lei Maria da Penha alterou a redação do artigo 313 do Código de Processo Penal para possibilitar a decretação da prisão preventiva como garantia da execução das medidas protetivas de urgência se o fato envolver violência doméstica e familiar contra a mulher.
A abertura tem possibilitado casos aberrantes de prisão preventiva duradoura decretada no bojo de termo circunstanciado instaurado para apuração de contravenção penal ou de inquérito versando sobre crime cuja pena máxima jamais levaria ao cumprimento da sanção em regime fechado.
A inclusão é absurda e fere os mais primordiais princípios do sistema de garantias individuais previsto na Constituição Federal, não encontrando amparo sequer nos tratados internacionais que versam sobre violência doméstica.
Visto que são as protetivas medidas de natureza cível, a previsão de prisão para garantia de sua execução nada mais é do que nova hipótese de prisão civil.
O simples fato de a previsão ter sido alocada no Código de Processo Penal não tem o condão de forjar a natureza criminal da sanção.
Assim, conferida a medida protetiva à mulher, essa deve se valer dos mecanismos próprios à execução da tutela inibitória, com todas as providências previstas no artigo 461 do Código de Processo Civil, tal como determina o artigo 22, § 4º, da Lei 11.340/2006.
Note-se que há ordens judiciais igualmente importantes para aquele que a obtém ou de semelhante repercussão para o que a sofre, mas que nem por isso levam à cogitação do decreto da prisão, como é o caso, por exemplo, de liminar em reintegração de posse ou do afastamento do cônjuge do lar obtido na vara de família.
A doutrina começa a concluir no sentido da inconstitucionalidade. Assim, Rogério Sanches Cunha: "Com efeito, se a medida protetiva é de caráter civil, a decretação da prisão preventiva, em um primeiro momento, violará o disposto nos arts. 312 e 313 do CPP, que tratam, por óbvio, da prática de crimes. E, pior, afrontará princípio constitucional esculpido no art. 5º, LXVII, que autoriza prisão civil apenas para as hipóteses de dívida de alimentos ou depositário infiel".
Paulo Rangel é ainda mais incisivo. Ao tratar do inciso IV do artigo 313, assim conclui: "Nada mais hediondo. A prisão preventiva é para assegurar o curso do processo (cautelar) e não para assegurar o cumprimento de medidas administrativas de proteção da ofendida. Não somos contra as medidas de proteção da ofendida, mas o Estado deve lançar mão de outros mecanismos para assegurar seu efetivo cumprimento que não a prisão do acusado (...) O Estado não tem como dar garantias à ofendida e, por isso, mandar prender o acusado. Criou as regras protetivas da ofendida sabendo que a realidade brasileira não permitirá assegurá-las e resolveu prender o acusado para que ela ficasse tranqüila".
Logo, a análise da possibilidade de decretação da prisão preventiva do agressor deve ser encetada junto ao processo-crime - não no bojo da medida protetiva -, atentando-se às hipóteses do artigo 312 do diploma processual penal e tendo-se como vértice a proporcionalidade e a homogeneidade. Qualquer decisão que fuja a tais parâmetros inexoravelmente levará consigo a pecha da ilegalidade.
XI. Conclusão
Por todo o exposto, conclui-se que as medidas protetivas de urgência previstas na Lei 11.340, de 7 de agosto de 2006, ostentam natureza jurídica de tutela inibitória cível.
De tal conclusão emergem como consectários a adoção do procedimento ordinário do Código de Processo Civil, a execução com fundamento no cumprimento de obrigações de fazer ou não fazer do mesmo diploma legal e a inconstitucionalidade da prisão decretada com o fim exclusivo de garantir sua execução.
Espera-se que doutrina e jurisprudência atentem-se para a importância da uniformização do trato da natureza jurídica das medidas de proteção, controlando, assim, a profusão de decisões incompatíveis entre si e insustentáveis diante do sistema de garantias individuais vigente.
Júlia Maria Seixas Bechara é Defensora Pública do Distrito Federal, titular da Procuradoria de Violência Doméstica e Familiar Contra a Mulher da Circunscrição Judiciária de São Sebastião, Membro do IBDFAM.
REFERÊNCIAS BIBLIOGRÁFICAS
CUNHA, Rogério Sanches; PINTO, Ronaldo Batista. Violência Doméstica: Lei Maria da Penha (Lei 11.340/2006) comentada artigo por artigo. 2ª edição. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2008.
DIAS, Maria Berenice. A Lei Maria da Penha na Justiça: A efetividade da Lei 11.340/2006 de combate à violência doméstica e familiar contra a mulher. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2007.
FEITOZA, Denílson. Direito Processual Penal, Teoria, Crítica e Práxis. 6ª edição. Niterói: Impetus, 2009.
GONÇALVES, Carlos Roberto. Direito Civil Brasileiro. 2ª edição. São Paulo: Saraiva, 2005.
GRECO, Rogério. Curso de Direito Penal, Parte Geral. 11ª edição. Niterói: Impetus, 2009.
MARINONI, Luiz Guilherme; ARENHART, Sérgio Cruz. Processo Cautelar. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2008.
RANGEL, Paulo. Direito Processual Penal. 17ª edição. Rio de Janeiro: Lúmen Júris, 2010.
TÁVORA, Nestor; ALENCAR, Rosmar Rodrigues. Curso de Direito Processual Penal. 3ª edição. Salvador: Podivm, 2009.
[1] DIAS, Maria Berenice. A Lei Maria da Penha na Justiça, p.140.
[2] FEITOSA, Denílson. Direito Processual Penal, p. 626.
[3] CUNHA, Rogério Sanches.Violência Doméstica, p. 121 e 136.
[4] TJDFT, Conselho Especial, Conflito de Competência 20080020137058, DJ 28/01/2009.
[5] TJDFT, 2ª Turma Criminal, Apelação 20060111217028, DJ 24/06/2009.
[6] TJDFT, 1ª Turma Criminal, Agravo de Instrumento 20100020000138, DJ 18/02/2010.
[7] GRECO, Rogério. Curso de Direito Penal, Parte Geral, p. 9.
[8] TÁVORA, Nestor. Curso de Direito Processual Penal, p. 59.
[9] GONÇALVES, Carlos Roberto. Direito Civil Brasileiro, Parte Geral, p.14.
[10] DINAMARCO, Cândido Rangel. Instituições de Direito Processual Civil, Volume II, p. 23.
[11] MARINONI, Luiz Guilherme. Processo Cautelar, p. 38.
[12] CUNHA, Rogério Sanches. Violência Doméstica, p. 121.
[13] RANGEL, Paulo. Direito Processual Penal, p. 777.
Portal IBDFAM - http://www.ibdfam.org.br/
retirado do site do IBDFAM
I- Introdução
A previsão de medidas protetivas de urgência na Lei 11.340, de 7 de agosto de 2006, é apontada como um dos maiores avanços no combate à violência doméstica e familiar contra a mulher no Brasil.
Afastamento do agressor do lar, proibição de contato e aproximação com a vítima, suspensão de visitas aos dependentes e prestação de alimentos provisionais são exemplos das disposições trazidas nos artigos 22, 23 e 24 da referida lei.
Quando bem contextualizadas, as medidas de proteção traduzem providência de utilidade insubstituível, na medida em que garantem o amparo da mulher, presumidamente hipossuficiente, em equilíbrio com direitos essenciais do apontado agressor, em especial a liberdade.
A despeito de sua importância, desde a promulgação da chamada Lei Maria da Penha, pouco se debateu acerca da natureza jurídica das medidas protetivas de urgência por ela disponibilizadas.
Entretanto, a determinação da natureza jurídica de um instituto, mais do que mero exercício teórico de categorização, implica opção por padrões de procedimentos pré-definidos, cuja repercussão prática justifica e demanda a perquirição.
A incompreensível lacuna doutrinária tem gerado decisões judiciais de múltiplos e incompatíveis sentidos, inexistindo uniformização sequer entre julgados de um mesmo tribunal.
Por conseguinte, restam indefinidas questões como a duração das medidas de proteção, a perda de eficácia pelo não ajuizamento de ação principal, o recurso cabível contra a decisão que aprecia sua aplicação, a competência para conhecimento do recurso e as conseqüências do descumprimento da ordem.
Nesse sentido, as protetivas seriam medidas de caráter cautelar, demandando ajuizamento de processo principal? O processo principal seria cível ou criminal? O não ajuizamento do principal implicaria cessação da eficácia da ordem cautelar? Ou estas guardariam caráter satisfativo, dispensando qualquer outro instrumento? Qual o procedimento a ser seguido? Contra a decisão que aprecia o pedido, seria cabível o agravo de instrumento, o recurso em sentido estrito, a apelação ou o habeas corpus? Qual a turma competente para conhecimento do recurso ou da ação autônoma, a cível ou a criminal? A prisão preventiva seria instrumento idôneo para garantia de sua execução?
Essas e tantas outras questões podem ser respondidas somente quando se pressupõe a natureza jurídica da medida protetiva, o que se passa a analisar.
II. Posicionamento doutrinário
De modo geral, a doutrina, mesmo sem se deter especificamente no tema da natureza jurídica, trata a protetiva como medida cautelar, atribuindo a algumas delas caráter cível e a outras caráter penal.
Representativas desse posicionamento majoritário são as explanações de Maria Berenice Dias: "Encaminhado pela autoridade policial pedido de concessão de medida protetiva de urgência - quer de natureza criminal, quer de caráter cível ou familiar - o expediente é autuado como medida protetiva de urgência, ou expressão similar que permita identificar a sua origem. (...) Não se está diante de processo crime e o Código de Processo Civil tem aplicação subsidiária (art. 13). Ainda que o pedido tenha sido formulado perante a autoridade policial, devem ser minimamente atendidos os pressupostos das medidas cautelares do processo civil, ou seja, podem ser deferidas 'inaudita altera pars' ou após audiência de justificação e não prescindem da prova do 'fumus boni juris' e 'periculum in mora".
Igualmente, Denílson Feitoza: "Assim, firmamos um primeiro ponto: há procedimentos cíveis e criminais separados, conduzidos por juízes com competência cumulativa, cível e criminal, quanto à matéria violência doméstica e familiar contra a mulher. As medidas protetivas, por sua vez, são, conforme o caso, medidas cautelares preparatórias, preventivas ou incidentes, como constatamos por suas características e por interpretação sistemática com outras leis. A mudança de denominação ("protetivas") não lhes retirou seu caráter. Por outro lado, há várias medidas protetivas, na Lei 11.340/2006, que têm, de modo geral, caráter dúplice, podendo ser utilizadas como medidas cautelares cíveis ou criminais (...)".
Segundo o autor, ostentariam caráter penal as medidas do artigo 22, incisos I, II, III, alíneas "a", "b" e "c". Já as medidas do artigo 22, incisos IV e V, artigo 23, incisos III e IV, e artigo 24, incisos II, III e IV, teriam caráter cível. Ainda, guardariam caráter administrativo as disposições do artigo 23, incisos I e II, e artigo 24, inciso I.
Por fim, destaca-se igual entendimento de Rogério Sanches Cunha e Ronaldo Batista Pinho, que, em capítulo denominado "cautelaridade", asseveram: "Como tal, devem preencher os dois pressupostos tradicionalmente apontados pela doutrina, para concessão das medida cautelares, consistentes no perciculum in mora (perigo da demora) e fumus bonis iuris (aparência do bom direito)". Adiante, complementam apontando a duplicidade de sua natureza: "Ocorre que várias dessas medidas possuem, inequivocamente, caráter civil".
III. Posicionamento jurisprudencial
A jurisprudência tem se mostrado vacilante. Com perplexidade, constatam-se posicionamentos diametralmente opostos dentro de um mesmo Tribunal de Justiça.
À míngua de deliberação do Superior Tribunal de Justiça ou do Supremo Tribunal Federal, divergem as cortes acerca do recurso cabível e da turma competente para apreciá-lo.
Em louváveis, porém estranhas tentativas de apaziguamento da dissensão, chega-se a conhecer agravo de instrumento como recurso em sentido estrito, admitir-se a fungibilidade entre apelação cível e criminal[5], ou ainda conceder-se habeas corpus de ofício no bojo de agravo de instrumento.
Ilustrativas da divergência, que se repete em igual gravidade em outras cortes brasileiras, destacam-se as seguintes decisões do Tribunal de Justiça do Distrito Federal e Territórios:
PROCESSUAL - CONFLITO NEGATIVO DE COMPETÊNCIA - RECURSO INTERPOSTO CONTRA DECISÃO PROFERIDA POR JUIZ CRIMINAL COM FUNDAMENTO NA LEI MARIA DA PENHA - COMPETÊNCIA DA TURMA CRIMINAL.1. O julgamento de recurso interposto contra decisão proferida em processo de medida cautelar submetida à jurisdição de Juizado Especial Criminal e de Violência Doméstica Familiar contra a Mulher, consubstanciada em medidas protetivas, é da competência de Turma Criminal. 2. Conflito julgado procedente, declarando-se competente a 2ª Turma Criminal. Unânime. (20080020137058CCP, Relator ESTEVAM MAIA, Conselho Especial, julgado em 11/11/2008, DJ 28/01/2009 p. 47)
PENAL E PROCESSUAL PENAL. AMEAÇA. VIOLÊNCIA DOMÉSTICA. PRELIMINAR: APELO INTERPOSTO COM APOIO NAS REGRAS DO PROCESSO CIVIL. ADMISSIBILIDADE, EM FACE DE ERRO JUSTIFICÁVEL CAUSADO PELO PRÓPRIO SENTENCIANTE. MÉRITO: CONCESSÃO DE MEDIDA PROTETIVA DE AFASTAMENTO DO LAR CONJUGAL. AUSÊNCIA DE FUNDAMENTAÇÃO. PRINCÍPIOS DO CONTRADITÓRIO E DA AMPLA DEFESA. NÃO OBSERVÂNCIA. NULIDADE. 1.Apesar da natureza penal da decisão resistida, o recurso de apelo, interposto de acordo com as regras processuais civis, não pode ser considerado intempestivo se o próprio julgador que proferiu a sentença resolveu o feito com base no art. 269, inciso I, do Código de Processo Civil, levando o apelante, portanto, a erro justificável (...) 3. Apelo conhecido e provido. (20060111217028APR, Relator ARNOLDO CAMANHO DE ASSIS, 2ª Turma Criminal, julgado em 02/04/2009, DJ 24/06/2009 p. 247)
AGRAVO DE INSTRUMENTO - NÃO CONHECIMENTO - HABEAS CORPUS - CONCESSÃO DE OFÍCIO - POSSIBILIDADE - LEI MARIA DA PENHA - MEDIDAS PROTETIVAS - MODULAÇÃO DE INTENSIDADE - ORDEM PARCIALMENTE MODIFICADA 1) - Não se conhece, em Turma Criminal, de agravo de instrumento, que é recurso cível, previsto no artigo 522 do CPC, sendo competente para dele conhecer Turma Criminal (sic), nos precisos termos do artigo 18, I, do Regimento Interno desta Casa. 2) - Possível conceder-se, de ofício, Habeas Corpus, nos exatos termos do §2º, do artigo 644, do CPP (...). 3) - Agravo de instrumento não conhecido. Habeas Corpus concedido de ofício, parcialmente. (20100020000138AGI, Relator LUCIANO MOREIRA VASCONCELLOS, 1ª Turma Criminal, julgado em 18/02/2010, DJ 19/03/2010 p. 124)
PROCESSUAL PENAL. APELAÇÃO DO MINISTÉRIO PÚBLICO. VIOLÊNCIA DOMÉSTICA E FAMILIAR CONTRA A MULHER. INDEFERIMENTO DAS MEDIDAS PROTETIVAS DE NATUREZA CÍVEL. RECURSO PRÓPRIO. NÃO CONHECIMENTO. 1 As medidas protetivas de natureza cível e o processo criminal são absolutamente independentes e desafiam deslinde específico, sendo que o indeferimento daquelas desafia recurso próprio na esfera cível, mais especificamente o de agravo de instrumento, tornando-se inadmissível o manejo de apelação criminal. Afasta-se a competência da Turma Criminal em favor da Turma Cível. 2 Remessa dos autos à uma das Turmas Cíveis, competente para conhecer da matéria questionada. (20070810005359APR, Relator GEORGE LOPES LEITE, 1ª Turma Criminal, julgado em 12/06/2008, DJ 09/07/2008 p. 95)
VIOLÊNCIA DOMÉSTICA - AMEAÇA - INDEFERIMENTO DE MEDIDAS PROTETIVAS - NATUREZA CÍVEL - INCOMPETÊNCIA DA TURMA CRIMINAL. I. As cautelas relacionadas no art. 22, incisos II e III, alíneas "a" e "b" da Lei 11.340/06 possuem natureza cível. O recurso interposto pelo indeferimento das medidas refoge à competência da Turma Criminal. II. Recurso não conhecido. Determinada a remessa a uma das Turmas Cíveis. (20090210046414APR, Relator SANDRA DE SANTIS, 1ª Turma Criminal, julgado em 05/07/2010, DJ 29/07/2010 p. 265)
IV. Crítica à ambivalência
Pressupondo-se que os julgadores encontram boa parte dos fundamentos de suas decisões na doutrina, de uma breve análise do apanhado de jurisprudência retro, observa-se que o atual posicionamento daquela tem gerado alarmantes divergências.
Tal resultado advém do tratamento ambivalente atribuído às medidas de urgência, oscilante entre regras de direito material e processual incompatíveis entre si.
Se por um lado a afirmação de que algumas protetivas ostentam caráter penal enquanto outras ostentam caráter cível procura sanar a omissão - se não a atecnia - legislativa, por outro fere a homogeneidade necessária à resolução segura de conflitos.
O cenário se torna caótico quando se verifica a inexistência de consenso entre os operadores sequer sobre quais seriam as medidas cíveis e quais seriam as criminais.
Por conseguinte, imagine-se, por exemplo, o deferimento, em uma mesma decisão, de duas medidas protetivas, sendo uma considerada cível e a outra penal. Desejando recorrer, o apontado autor do fato deveria, seguindo a orientação acima, manejar dois recursos, sendo um dirigido à turma cível e o outro à turma criminal, no que encontraria óbice no princípio da unirrecorribilidade.
Ainda no mesmo exemplo, caso desobedecidas as ordens, a execução forçada da medida cível seguiria o rito do cumprimento de obrigação de fazer do Código de Processo Civil, ao passo que a medida criminal poderia ser assegurada pela prisão preventiva.
Parece pouco razoável admitir-se a ocorrência cotidiana de tais complicações.
Ainda que se vislumbrem traços de caráter cível e traços de caráter penal, a boa técnica, pautada nos princípios da igualdade, da celeridade e da segurança - e, por que não dizer, no bom senso - impõe que se atribua natureza jurídica única a todas as medidas protetivas, tendo como vértice as mais elementares definições do direito, como se verá a seguir.
V. Método de definição da natureza jurídica
O que determina a natureza jurídica de um instituto é sua relação com o objeto da disciplina paradigma.
Para a enunciação do caráter da medida protetiva de urgência, portanto, basta que essa seja confrontada com as definições de direito penal e direito civil.
Nesse sentido, sabe-se que o direito penal é o conjunto de normas editadas pelo Estado definindo crimes e contravenções, isto é, impondo ou proibindo determinadas condutas sob a ameaça de sanção ou medida de segurança.
Por sua vez, o processo penal deve conferir efetividade ao direito penal, fornecendo os meios para materializar a aplicação da pena ao caso concreto.
Já o direito civil é o ramo que regula as relações entre os indivíduos nos seus conflitos de interesses, ao passo que o processo civil consiste no sistema de princípios e normas aplicado à solução de conflitos em matéria não-penal.
Portanto, em linhas gerais, se um instituto diz respeito à definição de delitos ou, de algum modo, à aplicação de sanção em razão de seu cometimento, ostenta caráter penal. De outro lado, se limita-se a reger as relações entre particulares em conflito, ostenta caráter civil.
Isso posto, sabendo-se que as medidas protetivas nada mais são do que providências judiciais com vistas a garantir a integridade física ou psíquica da vítima em situação de violência doméstica em face do suposto agressor, a conclusão por sua natureza jurídica cível deflui naturalmente.
VI. Crítica à natureza penal
Consoante acima exposto, doutrina e jurisprudência majoritárias apontam que muitas das medidas protetivas elencadas na Lei Maria da Penha ostentam caráter penal.
Todavia, para tanto, deveriam dizer respeito à descrição de delitos ou à aplicação de sanção por seu cometimento, o que não ocorre em absoluto. Os artigos 22, 23 e 24 do referido diploma legal, ao mesmo tempo em que não definem crimes ou contravenções, tampouco estabelecem procedimentos de repercussão no processo penal, que, se houver, tramitará em autos apartados.
A finalidade da medida de proteção, como visto, é garantir a integridade da mulher vítima de violência pelo suposto agressor, em nítida disciplina de conflito de interesses.
É fato que, no mais das vezes, as medidas se fazem necessárias porque foi a mulher vítima de delito.
Tal situação, entretanto, não tem o condão de transmudar o caráter da ordem, sob pena de injustificada imiscuição das diferentes esferas, sendo inquestionável que um único fato possa gerar conseqüências em mais de um âmbito jurídico.
A mesma situação existe, por exemplo, com o possuidor esbulhado. Ora, ainda que a invasão de terreno ou edifício alheio constitua crime previsto no artigo 161, parágrafo 1º, inciso II, do Código Penal, a ordem de reintegração de posse obtida em ação possessória nem por isso ostenta caráter penal.
Poder-se-ia argumentar, ainda, que a natureza criminal seria sinalizada pela possibilidade de formulação do pedido por intermédio da autoridade policial, cuja atribuição se circunscreveria ao âmbito penal.
Todavia, o artigo 12, inciso III, da lei em comento, é expresso em determinar a autuação do expediente da medida protetiva em apartado ao inquérito ou ao termo circunstanciado. Uma vez remetido o pleito ao Judiciário, esgota-se a função do delegado de polícia.
Cuida-se, pois, de mecanismo de aceleração da postulação da protetiva, na medida em que permite à ofendida formular o pedido sem o trâmite necessário, e por vezes moroso, à obtenção de assistência de advogado ou ao contato com órgão do Ministério Público, tudo nos termos dos artigos 19 e 27 do mesmo diploma legal.
Ademais, a atribuição de natureza penal teria o condão de vincular a medida protetiva ao processo criminal, do que decorreriam consequências preocupantes.
Nesse sentido, uma vez retratada a representação nos crimes de ação penal condicionada, seja por desinteresse na punição do autor, seja para evitar-se o constrangimento da vitimização secundária advinda dos sucessivos atos processuais, a vítima ver-se-ia desprovida da proteção desejada.
De outro lado, não seria incomum a manutenção da representação apenas como forma de garantir-se a vigência das protetivas, em evidente desvio de finalidade do processo-crime.
Por tais razões, parece pouco razoável que se sustente o caráter criminal das medidas protetivas de urgência.
VII. Natureza cível
Por regularem as relações entre vítima e agressor em conflito de interesses, ostentam as medidas protetivas de urgência natureza cível.
A conclusão se reforça pela análise do texto legal.
Em diversas passagens, a Lei 11.340/2006 se refere aos procedimentos de natureza cível. Assim, assumida a natureza penal das medidas, muitos dos dispositivos legais seriam completamente esvaziados.
Com efeito, o artigo 13 é expresso em determinar a aplicação do Código de Processo Civil aos processos cíveis decorrentes de violência doméstica.
Por sua vez, os artigos 14 e 33 mencionam a competência cível dos juizados especializados.
Já o artigo 15 define o juízo competente para apreciação das ações cíveis de igual origem, permitindo à vítima optar por sua distribuição no juizado de seu domicílio, do domicílio do agressor ou do local do fato em que se baseou a demanda. Note-se, nesse ponto, a diferença das regras de definição de competência estabelecidas no Código de Processo Penal, que, a princípio, determinam a apreciação do feito no lugar em que se consumar a infração.
Ainda, o artigo 25 ordena a intervenção do Ministério Público nas causas cíveis de igual origem, bem como o artigo 27 a assistência de advogado nesses atos processuais.
Ora, ostentando as protetivas caráter criminal, tais dispositivos perderiam aplicabilidade, não parecendo ser essa, por óbvio, a intenção do legislador.
Isso posto, cumpre analisar as consequências advindas da definição ora adotada.
VIII. Procedimento
O procedimento aplicável às medidas protetivas é o definido nos artigos 18 e 19 da Lei Maria da Penha, bem como, parece-nos, os relativos ao processo de conhecimento do Código de Processo Civil.
Assim, recebido o expediente, o juiz deve conhecê-lo e decidi-lo no prazo de 48 horas.
Verificada a verossimilhança das alegações e havendo fundado receio de dano irreparável ou de difícil reparação, deferirá o pleito em antecipação de tutela, nos termos do artigo 273 do Código de Processo Civil.
Da decisão cabe agravo de instrumento, conforme artigo 522 do mesmo diploma legal.
O feito deve seguir trâmite regular, instaurando-se o contraditório e produzindo-se prova em audiência, se necessário.
Após, deve ser julgado mediante sentença proferida nos termos dos artigos 267 e 269 do Código de Processo Civil. Eventual recurso será a apelação, dirigida à turma cível do Tribunal de Justiça.
A ordem comporta execução - provisória ou definitiva - em caso de descumprimento. Para tanto, o artigo 22, § 4º, da lei em comento, estabelece como mecanismo de coerção o sistema de cumprimento de obrigações de fazer e não fazer previsto no artigo 461 do Código de Processo Civil. Com isso, possibilita a efetivação da tutela mediante imposição, por exemplo, de multa diária, providência, aliás, ainda sem previsão dentro da atual sistemática processual penal.
IX. Crítica à cautelaridade
Doutrina e jurisprudência, conforme exposição retro, são uníssonas em cuidar das protetivas como medidas cautelares.
Por definição, medidas cautelares são tutelas de urgência com as quais se busca evitar que a decisão da causa, ao ser obtida, não mais satisfaça o direito invocado.
Nessa lógica, deveriam as medidas protetivas obedecer aos requisitos mínimos de instrumentalidade, de temporariedade e de não-satisfatividade. Entretanto, por serem tais características incompatíveis com sua finalidade, não há como sustentar-se tal tese.
Com efeito, como cautelar, a protetiva deveria fazer referência a um processo principal, conforme artigo 796 do Código de Processo Civil. Para alguns, é possível que se entenda que o principal é o processo criminal. Todavia, essa vinculação traria os inconvenientes acima apontados, em especial a desproteção da mulher em caso de retratação da representação, ou a manutenção dessa para garantia de vigência da ordem. Ademais, não se pode admitir que medida de natureza cível vincule-se a processo principal de caráter criminal.
Para outros, então, principal seria o processo a ser ajuizado na vara de família, como o de divórcio, o de reconhecimento e dissolução de união estável, o de alimentos. Ainda que tal entendimento seja compatível com a natureza cível da protetiva, é certo que essa não guarda o traço da referibilidade àquelas demandas. A proibição de contato do ofensor com a vítima não seria instrumento de sucesso da ação de alimentos, para se dar um exemplo. No mais, há casos em que vítima e ofensor não têm pendências judiciais a serem resolvidas, como na violência entre irmão e irmã ou entre namorados.
Outro problema diz com o prazo de cessação da eficácia da tutela, nos termos do artigo 808 do referido diploma legal. Assim, uma vez deferida a protetiva, a vítima teria o lapso de trinta dias para ajuizamento do processo principal, sob pena de perda da eficácia da ordem.
Tal conseqüência, por demais gravosa, vai de encontro à razão de existência das próprias medidas protetivas. Se, de um lado, se constatam dificuldades para o ajuizamento das demandas, como o acesso à célere assistência jurídica, a obtenção de documentos necessários à propositura da ação ou mesmo a instabilidade emocional, de outro lado é possível que sequer exista a necessidade de outro feito, como mencionado anteriormente.
De tal modo, a exigência de futura propositura de ação significaria nova desproteção à vítima, em atendimento a formalismo incompatível com o mecanismo de solicitação da ordem.
Isso posto, conclui-se que a medida protetiva, porque autônoma e satisfativa, não é tutela de natureza cautelar, mas sim tutela inibitória.
Com efeito, ao entregar à vítima o direito material invocado - consistente em sua proteção perante o suposto agressor - dispensa a medida protetiva qualquer outro procedimento, produzindo efeitos enquanto existir a situação de perigo que embasou a ordem (rebus sic stantibus).
A circunstância de a demanda ser fundada em perigo e baseada em cognição sumária - na fase de antecipação de tutela da protetiva - não implica, necessariamente, a caracterização da medida como cautelar.
Cuidando de tal diferenciação, esclarece Luiz Guilherme Marinoni que "a mais importante das tutelas jurisdicionais a serviço da integridade do direito material é a tutela inibitória, destinada a proteger o direito contra a possibilidade de sua violação. Para ser mais preciso, a tutela inibitória é voltada a impedir a prática de ato contrário ao direito, assim como a sua repetição, ou ainda, continuação. Se a cautelar serve para assegurar a tutela do direito, pra prevenir a violação do direito não é necessária uma tutela de segurança, mas apenas a tutela devida ao direito ameaçado de violação, ou seja, a tutela inibitória".
Portanto, uma vez deferida a ordem, porque demonstrada a probabilidade de violação do direito, para sua vigência é suficiente que permaneça a situação de perigo que a lastreou, não havendo que se falar em ajuizamento de processo principal.
X. Prisão civil
A Lei Maria da Penha alterou a redação do artigo 313 do Código de Processo Penal para possibilitar a decretação da prisão preventiva como garantia da execução das medidas protetivas de urgência se o fato envolver violência doméstica e familiar contra a mulher.
A abertura tem possibilitado casos aberrantes de prisão preventiva duradoura decretada no bojo de termo circunstanciado instaurado para apuração de contravenção penal ou de inquérito versando sobre crime cuja pena máxima jamais levaria ao cumprimento da sanção em regime fechado.
A inclusão é absurda e fere os mais primordiais princípios do sistema de garantias individuais previsto na Constituição Federal, não encontrando amparo sequer nos tratados internacionais que versam sobre violência doméstica.
Visto que são as protetivas medidas de natureza cível, a previsão de prisão para garantia de sua execução nada mais é do que nova hipótese de prisão civil.
O simples fato de a previsão ter sido alocada no Código de Processo Penal não tem o condão de forjar a natureza criminal da sanção.
Assim, conferida a medida protetiva à mulher, essa deve se valer dos mecanismos próprios à execução da tutela inibitória, com todas as providências previstas no artigo 461 do Código de Processo Civil, tal como determina o artigo 22, § 4º, da Lei 11.340/2006.
Note-se que há ordens judiciais igualmente importantes para aquele que a obtém ou de semelhante repercussão para o que a sofre, mas que nem por isso levam à cogitação do decreto da prisão, como é o caso, por exemplo, de liminar em reintegração de posse ou do afastamento do cônjuge do lar obtido na vara de família.
A doutrina começa a concluir no sentido da inconstitucionalidade. Assim, Rogério Sanches Cunha: "Com efeito, se a medida protetiva é de caráter civil, a decretação da prisão preventiva, em um primeiro momento, violará o disposto nos arts. 312 e 313 do CPP, que tratam, por óbvio, da prática de crimes. E, pior, afrontará princípio constitucional esculpido no art. 5º, LXVII, que autoriza prisão civil apenas para as hipóteses de dívida de alimentos ou depositário infiel".
Paulo Rangel é ainda mais incisivo. Ao tratar do inciso IV do artigo 313, assim conclui: "Nada mais hediondo. A prisão preventiva é para assegurar o curso do processo (cautelar) e não para assegurar o cumprimento de medidas administrativas de proteção da ofendida. Não somos contra as medidas de proteção da ofendida, mas o Estado deve lançar mão de outros mecanismos para assegurar seu efetivo cumprimento que não a prisão do acusado (...) O Estado não tem como dar garantias à ofendida e, por isso, mandar prender o acusado. Criou as regras protetivas da ofendida sabendo que a realidade brasileira não permitirá assegurá-las e resolveu prender o acusado para que ela ficasse tranqüila".
Logo, a análise da possibilidade de decretação da prisão preventiva do agressor deve ser encetada junto ao processo-crime - não no bojo da medida protetiva -, atentando-se às hipóteses do artigo 312 do diploma processual penal e tendo-se como vértice a proporcionalidade e a homogeneidade. Qualquer decisão que fuja a tais parâmetros inexoravelmente levará consigo a pecha da ilegalidade.
XI. Conclusão
Por todo o exposto, conclui-se que as medidas protetivas de urgência previstas na Lei 11.340, de 7 de agosto de 2006, ostentam natureza jurídica de tutela inibitória cível.
De tal conclusão emergem como consectários a adoção do procedimento ordinário do Código de Processo Civil, a execução com fundamento no cumprimento de obrigações de fazer ou não fazer do mesmo diploma legal e a inconstitucionalidade da prisão decretada com o fim exclusivo de garantir sua execução.
Espera-se que doutrina e jurisprudência atentem-se para a importância da uniformização do trato da natureza jurídica das medidas de proteção, controlando, assim, a profusão de decisões incompatíveis entre si e insustentáveis diante do sistema de garantias individuais vigente.
Júlia Maria Seixas Bechara é Defensora Pública do Distrito Federal, titular da Procuradoria de Violência Doméstica e Familiar Contra a Mulher da Circunscrição Judiciária de São Sebastião, Membro do IBDFAM.
REFERÊNCIAS BIBLIOGRÁFICAS
CUNHA, Rogério Sanches; PINTO, Ronaldo Batista. Violência Doméstica: Lei Maria da Penha (Lei 11.340/2006) comentada artigo por artigo. 2ª edição. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2008.
DIAS, Maria Berenice. A Lei Maria da Penha na Justiça: A efetividade da Lei 11.340/2006 de combate à violência doméstica e familiar contra a mulher. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2007.
FEITOZA, Denílson. Direito Processual Penal, Teoria, Crítica e Práxis. 6ª edição. Niterói: Impetus, 2009.
GONÇALVES, Carlos Roberto. Direito Civil Brasileiro. 2ª edição. São Paulo: Saraiva, 2005.
GRECO, Rogério. Curso de Direito Penal, Parte Geral. 11ª edição. Niterói: Impetus, 2009.
MARINONI, Luiz Guilherme; ARENHART, Sérgio Cruz. Processo Cautelar. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2008.
RANGEL, Paulo. Direito Processual Penal. 17ª edição. Rio de Janeiro: Lúmen Júris, 2010.
TÁVORA, Nestor; ALENCAR, Rosmar Rodrigues. Curso de Direito Processual Penal. 3ª edição. Salvador: Podivm, 2009.
[1] DIAS, Maria Berenice. A Lei Maria da Penha na Justiça, p.140.
[2] FEITOSA, Denílson. Direito Processual Penal, p. 626.
[3] CUNHA, Rogério Sanches.Violência Doméstica, p. 121 e 136.
[4] TJDFT, Conselho Especial, Conflito de Competência 20080020137058, DJ 28/01/2009.
[5] TJDFT, 2ª Turma Criminal, Apelação 20060111217028, DJ 24/06/2009.
[6] TJDFT, 1ª Turma Criminal, Agravo de Instrumento 20100020000138, DJ 18/02/2010.
[7] GRECO, Rogério. Curso de Direito Penal, Parte Geral, p. 9.
[8] TÁVORA, Nestor. Curso de Direito Processual Penal, p. 59.
[9] GONÇALVES, Carlos Roberto. Direito Civil Brasileiro, Parte Geral, p.14.
[10] DINAMARCO, Cândido Rangel. Instituições de Direito Processual Civil, Volume II, p. 23.
[11] MARINONI, Luiz Guilherme. Processo Cautelar, p. 38.
[12] CUNHA, Rogério Sanches. Violência Doméstica, p. 121.
[13] RANGEL, Paulo. Direito Processual Penal, p. 777.
Portal IBDFAM - http://www.ibdfam.org.br/
retirado do site do IBDFAM
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